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SE NON ORA QUANDO / Corpi di Donne - di Francesca Comencini e Fabrizia Giuliani

SE NON ORA QUANDO / Corpi di Donne - di Francesca Comencini e Fabrizia Giuliani

L’intervento di Francesca Comencini (scrittrice e regista) e Fabrizia Giuliani (Filosofa del Linguaggio) a Siena (9 e 10 luglio 2011)

Sabato, 23/07/2011 - Il 13 febbraio è stata un’esperienza fisica prima che verbale. Lo hanno riconosciuto in molti e in molte. La centralità del corpo era già presente nel nesso tra dignità e cittadinanza attorno al quale ruotava l’appello, e nelle adesioni a quell’appello, a cominciare dalle parole pesanti sulla bellezza cancellata pronunciate da suor Rita Giarretta.



Questa centralità, riecheggiava, amplificata, nelle decine di migliaia di mail che arrivavano al nostro blog. In ognuna di esse donne di ogni età e condizione raccontavano come la dignità offesa non fosse certo una questione di morale e decoro ma piuttosto il sigillo che sanciva il loro non essere riconosciute pienamente cittadine di questo paese.



Ma è stato solo l’impatto fisico con le altre a rompere l’argine, in una esplosione urgente e necessaria. I nostri corpi si sono riconosciuti, nel qui ed ora di ogni piazza, hanno ritrovato agio, sintonia e padronanza. L’esperienza di quel pomeriggio ha mostrato quanto essi sapessero che le brutte immagini sui muri delle piazze di cui occupavano per una volta il centro, disegnavano in realtà un perimetro al quale era impossibile adattarsi. Moderne guardiane di un ordine immutabile, fatto di tempi e forme che non comprendono la nostra libertà.



Se dunque sono i nostri corpi – la nostra libertà – ad essere allontanati dalla sfera pubblica, occorre ripartire da qui per ribaltare il quadro: dalla consapevolezza che due temi spesso tenuti distinti nelle riflessioni politiche tradizionali, da una parte l’aspetto culturale, dall’altra quello economico sociale - siano in realtà due aspetti della stessa questione.

Solo tenendo stretto questo nesso è possibile comprenderne a fondo le singole articolazioni e combatterne adeguatamente le implicazioni. Ogni rivendicazione, che sia di un osservatorio sulla pubblicità, una legge sulle dimissioni in bianco, sulla rappresentanza, rischia di essere una scatola vuota se non è riempita dalla consapevolezza pratica e simbolica del rifiuto di cui il corpo delle donne è oggetto nella polis.



Questo rifiuto diffuso si arrocca su due punti: maternità e desiderio. E’ il corpo in gravidanza cacciato dalle fabbriche, dalle università, dai call center, dagli uffici, dalla sfera pubblica, è il corpo rappresentato nudo e a pezzi per significare di sé solo la sua disponibilità. E’ un corpo fissato in una staticità che non può essere attraversata dal tempo - e dunque dalla vita. La vita, le forme della vita che il tempo scandisce, sono contraddette dall’immobilità di quel fermo immagine, funzionale ad un immaginario erotico e un modello produttivo anch’essi fuori dal tempo della storia. Ma è proprio la fissità di quei corpi a preservare quest’ordine da qualunque cambiamento, sia sul piano economico e sociale che su quello simbolico. L’incompatibilità delle donne con l’ethos della sfera pubblica viene segnalata continuamente da immagini che le rappresentano chiuse in una corporeità ‘al di qua’ del linguaggio, ‘naturalmente’ estranee all’esercizio pieno della cittadinanza; il tempo che non scorre e non cambia i loro corpi è funzionale anche a garantire l’illusione di immortalità di tutti – donne e uomini –, a costituire un riparo dalla paura di essere attraversati dal tempo fino a morire.



Ma è impossibile descrivere il corpo al di fuori del suo andamento temporale e dalle trasformazioni che lo segnano: dal succedersi delle età e dei cambiamenti che questo porta con sé, al ritmo della gravidanza, segnata dal ‘conto’ delle settimane e dei mesi, il tempo iscritto nel corpo è il segno della sua vita e della sua libertà.







Il ricatto più antico

La maternità è il momento in cui si rende più vistosa e ineludibile la differenza femminile. I molti modi nei quali si afferma l’incompatibilità tra i tempi del mondo produttivo e quelli, appunto, della maternità, sono un rifiuto del corpo delle donne TUTTE, al di là dell’essere davvero diventate madri o del volerlo diventare.

La vicenda delle dimissioni in bianco è esemplare. Nei luoghi di lavoro in cui viene chiesto di firmare le proprie dimissioni al momento dell’assunzione ‘in previsione’ di una possibile gravidanza, viene chiesto a tutte le lavoratrici di farlo. Indipendentemente dalle scelte che ciascuna ha in mente per il proprio futuro, dalla propria vita affettiva e sessuale, la richiesta colpisce tutte, perché nel corpo di tutte è iscritta la possibilità di generare.

Ma non è solo su questo terreno che si mostra come la maternità sia un tratto della differenza delle donne.



Se la chimica ha reso possibile la rottura del legame necessario tra sessualità e procreazione, nel pensiero del nostro corpo resta iscritta questa possibilità con tutto il magma di sentimenti ed emozioni, tensioni sempre ambivalenti che la accompagna: timore, desiderio, attrazione, rifiuto.

E il portato simbolico di questa esperienza coinvolge tutte - così come tutte sono colpite dal rifiuto che si esprime nell’allontanamento delle madri dai luoghi di lavoro, o dalle difficoltà in cui s’imbattono nella progressione della carriera o ancora da quelle che condizionano la stessa possibilità di immaginare una maternità.

L’esclusione di questa parte dell’esperienza delle donne – di questa parte del loro corpo – è un gesto che condiziona e segna i corpi di tutte e che per slittamenti progressivi porta – più o meno consapevolmente – ad adattare la propria fisionomia ai tempi e alle forme di un mondo che non prevede la nostra differenza, la nostra libertà.



Prendere le distanze o addirittura provare a disfarsi di un corpo differente da quello maschile che fino ad ora ha dato la misura all’unica idea di libertà che conosciamo, è stata, per alcune, una strategia di adattamento tenace e illusoria.

Cancellare il proprio corpo, le possibilità che contiene, le forme di pensiero che ne derivano, credere di poterlo smontare e rimontare, disarticolare, di farne tacere delle parti e potenziarne altre, come se la possibilità di generare fosse confinata solo alla dimensione corporea – o solo a una parte di essa -, ha rappresentato il rischio di una resa al ricatto più antico.



La resa a un ordine atavico, dove l’esperienza della creatività libera - la creatività artistica, intellettuale, politica – esclude tout court la maternità, considerata fatto solo biologico, corporeo, irriflesso, destinato ad assorbire per intero il tempo e la vita – l’identità – di una donna. Come mostrano i primati italiani, che sommano il più basso tasso di natalità e il più basso tasso di occupazione femminile, questa strategia si è rivelata una rincorsa ostinata verso un’esca artificiale. Non è smettendo di avere figli che otterremo più lavoro, ma soprattutto non è rinunciando a lavorare che faremo più figli. Quell’ordine è saltato, una volta per tutte.

Le donne non si sono arrese a questo ricatto, con una fatica smisurata, come giocolieri hanno tenuto in equilibrio una vita a più piani dove ruotano senza sosta lavoro, responsabilità, affetti. Un sentiero lungo il quale si sono incamminate ognuna per sé nella ricerca di una forma nuova, di una libertà che le accogliesse, tutte intere.

Ma questo gigantesco sforzo creativo nel quale sono state lasciate sole, privo di un adeguato di riconoscimento pubblico, non ha trovato nessuna risposta politica.





La parodia

A consentire e a nascondere questo vuoto politico si è abbattuta una tempesta silenziosa d’immagini tanto pervasive quanto apparentemente innocue, leggere, che lentamente ha ricoperto il paese tutto, deformandolo.

Mentre lavoravamo, studiavamo, crescevamo o guardavamo crescere le nostre figlie, siamo state attraversate da immagini di noi e di loro lontane e irreali, una narrazione falsa che sanciva l’irrilevanza della nostra voce pubblica e feriva la nostra dignità.

Ma così facendo feriva al cuore la dignità del paese, condannandolo all’irrilevanza sul piano internazionale.



Queste immagini che mettono ai margini o cancellano la varietà e la ricchezza della presenza reale, viva, delle donne, ci restituiscono puntualmente lo stesso prezzo della distanza dal nostro essere -anche- un corpo come avviene per l’ingresso al mondo del lavoro, e rappresentano solo un’altra forma dello stesso rifiuto della differenza femminile. L’accesso alla cittadinanza si restringe per le donne portandole a lasciare sempre fuori qualcosa e ridursi a menti disincarnate o a pura corporeità irriflessa. Nella scissione potente esibita da questi modelli si coglie la negazione più esplicita dell’ idea forte avanzata dalla riflessione femminista, l’impossibilità di separare la mente dal corpo o, se si preferisce, l’idea che la libertà delle donne si compie se viene meno il ricatto implicito nella scissione e il corpo fa il suo ingresso nella polis. La pressione a separarsi dal corpo, pensando che non abbia limiti né ricordi, e che riuscire a modificare qualcosa di sé per rendersi sempre più disponibili al desiderio altrui riguardi solo il corpo, equivale, in altro verso, ad assecondare l’esca.



Le donne che si adattano alla forma di quelle immagini raccontano di una mente che si pensa autonoma nel progettare finalità e per raggiungerle dispone di un corpo ridotto a pura proprietà e del tutto estraneo ad essa; una sessualità pensata solo in termini di sottomissione o dominio, un corpo non più vincolo ma risorsa sempre passivo ed estraneo al lavoro della mente che lo controlla, al tempo stesso oppressore e popolo oppresso. Considerare come gesto autonomo la corsa a perseguire il desiderio dell’altro fino alla negazione di sé, mostra un altro volto della stessa ostinata rincorsa di un’esca artificiale -una chimera. Una creatura a più parti senza una vita – e un desiderio – propri, in un’illusione di dominio che si traduce in un’autentica parodia della libertà.



La asimmetria erotica dei due sessi, che invece il movimento delle donne ha portato alla luce, ha rivendicato l’autonomia e le potenzialità della sessualità femminile, mostrando lo sfasamento di desideri tra donne e uomini, che non sempre combaciano e che non hanno nulla di meccanico e prevedibile. Si è aperto così lo spazio di un incontro libero, che può conoscere anche il rifiuto e il diniego. Le tante forme di abuso sulle donne che accomunano uomini di ogni parte del mondo e di ogni condizione sociale e culturale, in un unico gesto reiterato, replicato all’infinito quanto le immagini degradate che lo annunciano, sono il contraccolpo violento di quella libertà. Ma questi fenomeni gravissimi, frutto della paura e della debolezza non possono fermare il tempo. Lo spazio per un incontro libero tra uomini e donne ormai è aperto, è irrinunciabile e non può prescindere dalla libera affermazione della sessualità delle donne. La sua potenza. La sua molteplicità. La sua possibilità di essere vissuta anche del tutto indipendentemente dalla riproduzione e dagli uomini. Raccontarla, affermarla, conoscerla, sottrarla ai malintesi e alle semplificazioni di cui è stata oggetto è un gesto politico che non dobbiamo smettere di fare.

Le filosofe, le psicoanaliste, le politiche, e le artiste, noi tutte che siamo qui non abbiamo mai smesso di creare belle immagini e parole capaci di restituire la ricchezza e la forza di questa differenza in una esplosione di creatività che continua, e ci dice che indietro non si torna.









Il corpo e il limite

Se la scoperta delle possibilità del corpo è il cuore per capire la cifra della nostra libertà, la sua grandezza è tale solo se la ancoriamo al limite.

L’illusione di trascendere il limite del corpo per accedere ad una libertà svincolata, cancella la nostra differenza, ossia la nostra forza. Solo una consapevolezza profonda, una elaborazione diffusa di questo limite può darci la forza di cambiare, costruire forme nuove e prendere così le distanze dalla tensione all’onnipotenza propria di una mente che crea corpi a piacimento perché annulla quelli reali – propria degli uomini. Questo vuol dire incamminarci insieme per un sentiero nuovo, cercare una nuova forma di libertà, nella quale portare il corpo, i figli di questo corpo, i desideri di questo corpo e una mente che può contenerli tutti senza esserne contraddetta. Solo rispecchiandoci nelle nostre reciproche esperienze possiamo farlo. Dobbiamo ripercorrere insieme il sentiero che abbiamo percorso in solitudine, solo così ci staccheremo dalla suola delle scarpe quel disprezzo di noi stesse che inavvertitamente vi è rimasto appiccicato camminando per le pubbliche vie di questo paese. Solo insieme possiamo portarci addosso questo nostro corpo con il senso di felicità e di pienezza che si merita.

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