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Se le donne potranno aiutare la Chiesa

Se le donne potranno aiutare la Chiesa

Un mese fa avevo scritto una lettera a Papa Francesco....

Domenica, 01/12/2013 - Un mese fa avevo scritto una lettera a Papa Francesco - al quale ovviamente tutti gli uomini e le donne di buona volontà sono grati per quanto tenta di innovare - per suggerirgli prudenza a proposito della sua reiterata intenzione di "parlare del ruolo della donna nella Chiesa". E' infatti necessario ascoltare prima le "eterne dimenticate e sconfitte", come il teologo Juan Josè Tamayo definisce le donne. Di fatto il problema rappresentava - e rappresenta - una situazione che i mezzi di informazione italiani, distratti dall'innamoramento teologico dei vari Scalfari e Odifreddi, trascurano, anche se teologhe, suore, femministe credenti e non credenti hanno espresso serie preoccupazioni "di genere".

Le donne, infatti, quando le istituzioni si occupano del loro futuro, si allarmano: infatti, il ruolo socialmente attribuito al genere femminile andrebbe decostruito perché, pur apparentemente identitario, è in sostanza un'invenzione storica che non rappresenta le donne. Come esempio illuminante basterebbe la notizia, pubblicata a fine settembre dal vaticanista Juan Arias sul quotidiano spagnolo El Pais, secondo cui il Papa potrebbe nominare cardinale una donna. Nonostante la richiesta di religiose favorevoli alla nomina, è scattato fra le donne interessate l'allarme rosso. La porpora cardinalizia rappresenterebbe infatti un'omologazione a "questa" gerarchia vaticana: la solita, ben nota anche nelle altre istituzioni, concessione di finta parità. Alle donne che sperano - come chiesto da Papa Francesco - di rinnovare la Chiesa con la propria cultura, non basta; perché il cattolicesimo, per ora, è "istituzionalmente", solo machista (sempre per usare le parole del Papa argentino).

Ivonne Gebara, fin dal 4 agosto di quest'anno, suggeriva: "Papa Francesco, per favore, si informi su Google sugli aspetti della teologia femminista, almeno nel mondo cattolico". La lettera andava nella stessa direzione: il Papa è un celibe che delle donne conosce solo il ruolo sociale estraneo all'autonomia culturale specifica e quell'idealizzazione "della donna" (il clero imparerà mai a dire "delle donne"?) che trionfa nella visione, propria solo di un immaginario maschile, della vergine-madre, "superiore agli apostoli", ma esente da responsabilità nella costruzione reale della sua Chiesa. Se Maria di Magdala (che San Tommaso chiama "apostola apostolorum") e le altre che si erano recate al sepolcro vuoto, furono incaricate dal Risorto di portare l'annuncio ai fratelli in clandestinità per paura delle persecuzioni, ai nostri giorni risulta davvero poco comprensibile che il ministero "petrino" escluda quello "mariano".

Senza irriverenza nel confronto, occorre considerare che, dopo la professionalizzazione militare, solo la chiesa cattolica rimane rigorosamente un'istituzione maschile. Per questo manca degli strumenti culturali per riformare il ruolo di quel femminile che ha rimosso da sé. Papa Francesco, anche se, commemorando la Mulieris dignitatem, ha detto "no alla servitù della donna", dovrà affrontare un inevitabile confronto di "relazione" con "il genere" a cui Giovanni Paolo II attribuiva uno speciale "genio femminile", per confinarlo nella famiglia. Un confronto non facile perché le donne chiedono di essere riconosciute "a partire da sé", mentre gli uomini (e il Papa è un uomo), in genere, non si interrogano, non si conoscono e si relazionano male se debbono prescindere dal potere che gli conferisce, prima di ogni altro valore, l'essere uomo.

Una conferma alle preoccupazioni femminil-femministe la offre, in questi giorni, il questionario informativo che il Papa ha proposto alle diocesi per il Sinodo straordinario sulla famiglia (5-19 ottobre 2014), al cui interno troviamo intatto il linguaggio tradizionale della morale cattolica (di cui molto, proprio a partire dalla terminologia, andrebbe smantellato). Ottima, dunque, la scelta di interpellare la base di un mondo fin qui educato all'obbedienza, meno buona se avvia alla conferma della tradizione convenzionalmente "cattolico-romana". Per questo il richiamo iniziale alla "missione di predicare il Vangelo" è premessa necessaria alla pratica nuova della consultazione; purché, però, i laici e le laiche rivendichino l'autorevolezza loro data dal Concilio Vaticano II e non lascino le risposte ai Consigli pastorali: solo fornendo libere risposte, contribuiranno ad una riforma che solo se parte dalla realtà effettiva del vivere può ridare senso a valori di fede oggi resi opachi.

Proprio sulla famiglia è auspicabile che il clero faccia un passo indietro per la scarsa competenza che ne hanno i preti, condannati a conoscere come famiglia solo quella dei genitori a causa dell'obbligatorietà del celibato; tema questo che poteva ben rientrare tra gli argomenti della consultazione non essendo pochi i preti sposati la cui testimonianza di, per così dire, "divorziati" dall'Ordine, risulterebbe non irrilevante. Il riferimento alla "legge naturale", dato come ovvio, sembra prescindere dall'esistenza di ormai ampi settori di persone di fede, in particolare donne, che ne riconoscono il limite di principio. Non è senza probabile ragione che non viene fatta parola dell'argomento agitato dal "Movimento per la vita" (sostenuto da parrocchie e associazioni anche con una raccolta di firme consegnate in questi giorni al Ministero dell'Interno) sul riconoscimento della personalità giuridica dell'embrione, definito "uno di noi"; non va tuttavia ignorata né l'opinione largamente diffusa che la vita prenatale può essere valorizzata solo a partire da quella reale delle vittime di guerre, migrazioni, disastri ambientali e miseria che incontrovertibilmente sono persone; né il fatto che, essendo i rapporti sono molto più fecondi delle gravidanze portate a termine, milioni di embrioni se ne vanno senza aver avvertito della loro presenza neppure le presunte madri che, pensando a un ritardo mestruale di uno o due mesi, restano ignare del concepimento.

Nella parte relativa al matrimonio, il questionario parla di "sposi" dando per scontato che significhi "un uomo e una donna", ma senza riconoscimento delle loro autonome dignità, che invece richiederebbero questioni specifiche. Non tutti ancora sanno che solo la Gaudium et spes ha posto come fondamento supremo del matrimonio l'amore, precedentemente condizionato dalla triade "riproduzione, mutuo aiuto e remedium concupiscentiae" (detto in latino per non svilire un sacramento). Non ricorre nemmeno la parola "sessualità", anche se molti documenti pastorali ne hanno esaltato il valore umano ineludibile, soprattutto per ciò che concerne l'autenticità di relazioni che, proprio nell'ambito dell'educazione religiosa, debbono pretendere di diventare espressione alta di sé sia per gli uomini che per le donne. La rimozione del sesso, silenziato dalla tradizione, nacque dal convincimento che la sessualità maschile egocentrica fosse senza peccato in virtù della sottomissione dell'altro genere; si spiega così l'assurda (perché teologicamente immotivata) esclusione dalla consacrazione delle donne, ritenute, come in altri culti più o meno antichi, impure perché mestruate e condannate a non entrare nel tempio - come la santa Vergine - per quaranta giorni dopo l'impurità del parto. Fu il patriarcato a intercettare il messaggio li liberazione del cristianesimo nascente: "voglio che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio.... L’uomo non deve coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo....." (I Cor. 3-11).

La citazione biblica "Dio fece l'essere umano, uomo e donna, a sua immagine e somiglianza" (qui citata nella traduzione androcentrica "Dio fece l'uomo a sua immagine") insegnerebbe il rispetto che debbono avere i coniugi di se stessi e del loro futuro, figli compresi. La cosiddetta "apertura degli sposi alla vita", definita anche "favorire la natalità", lascia supporre che il problema della trasmissione della vita sia essenzialmente riproduttivo, a prescindere dalla qualità della vita concreta che gli sposi intendono fornire ai figli. All'interno della coppia, la maternità ha sempre connotato la donna, mentre la paternità non è mai connotato esclusivo dell'uomo: senza una rilettura dei ruoli antropologici nelle società complesse non ci si deve stupire se la stessa istituzione familiare è a rischio. Nemmeno sulla qualità dei rapporti coniugali e familiari il questionario invita a prendere posizione esplicita, anche se dovrebbe essere evidente la necessità di evangelizzare gli uomini e le loro presunte esigenze. Infatti la donna, per quanto santificata nel suo ruolo, rischia di essere un oggetto a disposizione degli egoismi maschili: sarebbe bene tener conto che il numero maggiore di aborti è delle coniugate e tanto meno si può ignorare che è all'interno della famiglia che si commettono violenze e abusi sulle donne e sui bambini. Maltrattamenti, stupri, pedofilia albergano nella privatezza delle case e i femminicidi appaiono quotidianamente sulle pagine nere dei media: vanno nominati. Si suppone che i preti che confessano (il questionario fa riferimento alla pratica del sacramento chiamato sia "della Riconciliazione", sia "della Penitenza") ne sappiano qualcosa: se non si diffondono un'informazione e una formazione specifiche, si perde la possibilità di prevenire disastri e crimini.

L'espressione "convivenze ad experimentum" indurrebbe a ritenere la convivenza un peccato da risanare con un prevedibile matrimonio, mentre domande correttamente informative come quelle sulle "unioni dello stesso sesso" lasciano persistere un pregiudizio di trasgressività, se poi si chiede "come i battezzati vivono la loro irregolarità".

Toccherà a Papa Francesco utilizzare i risultati di questa ottima innovazione "democratica" (e fraterna) e giudicare se i cristiani lo possono aiutare davvero a innovare il magistero e a conformare "la dottrina cattolica", finora comprensiva di temi "non negoziabili", ad una chiara, coerente contestualizzazione del Vangelo. Se accoglierà l'invito che viene dal pensiero delle donne e cercherà di partire da sé nel pensare l'umano, si accorgerà di quanto grande sia stata la perdita della chiesa nell'escludere le donne dall'elaborazione dei valori della teologia, dalla rilettura delle Scritture, dall'organizzazione non verticale della chiesa.

Nemmeno questa indagine. tuttavia potrà aiutare papa Francesco se i laici, ma in primo luogo le laiche, non spingeranno i vescovi a rielaborarne tutti i contenuti, anche potenziali. L'archetipo antropologico della famiglia patriarcale deve oggi essere definitivamente superato, anche se nemmeno la parità erogata dalle leggi civili privilegia ancora in pieno l'autonomia e la libertà delle donne nella società e nelle stesse istituzioni pubbliche sempre orientate a pretendere l'omologazione al modello unico. Per questo si propone nuovamente alla lettura l'intervento di Carlo Maria Martini sulla cultura delle donne: nel 1981 richiamava già all'urgenza di riallineare alla vita contemporanea, partendo dal pensiero delle donne, una Chiesa in ritardo di duecento anni, forse a partire proprio da questa discriminazione.



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Carlo Maria Martini al Convegno sulla presenza delle donne nella Chiesa tenuto a Milano nell'aprile del 1981 e recentemente riedito dal libro "Lo straordinario dell'ordinario" con prefazione di Emma Cavallaro del Coordinamento Teologhe Italiane



<<Perché, si chiede ad esempio la donna, identificare l'immagine di Dio con quella trasmessaci da una cultura maschilista? Quale l'annuncio kerigmatico per lei, non rinchiuso in una visione moralistica? Quali indicazioni per un cammino spirituale e di santità che la stimolino adeguatamente? Quali indicazioni per una rinnovata prassi pastorale, per un cammino vocazionale per il matrimonio, per la consacrazione religiosa, la famiglia, in considerazione della nuova coscienza di sé che la donna ha acquisito? Quali indicazioni per un linguaggio globale, anche liturgico, che non faccia sentire esclusa, nella sua elaborazione, la donna?

Perché così poche e inadeguate risposte alla valorizzazione del proprio corpo, dell'amore fisico, dei problemi della maternità responsabile?

Perché la pur grande presenza delle donne nella Chiesa non ha inciso nelle sue strutture? E nella prassi pastorale perché attribuire alla donna solo quei compiti che lo schema ideologico e culturale della società le attribuiva, e perché non esplicitare i suoi carismi "opera dello Spirito Santo"?

I ruoli ecclesiali affidati alle donne sono allora secondo i carismi di una Chiesa condotta dallo Spirito oppure ancora frutto di una mentalità maschile?

Le donne si chiedono tutto questo. Non sempre lo esprimono. Sentono ancora timore a infrangere una “iconografia” della donna cristiana, dentro la quale peraltro stentano a riconoscersi e non riescono più ad adattarsi.

La Chiesa deve porsi in ascolto. Deve lasciarle esprimere da protagoniste. Il loro modo di leggere, interpretare la vita ha una rilevanza che deve segnare un cammino pastorale che non può vedere le donne perennemente soggette o brave e fedeli esecutrici, quasi vergognose o timide di fronte alla forza che potrebbero esprimere in novità.

I ministeri, carismi, servizi, sono doni per la comunità ed esigono una profonda e attenta rilettura che apra nuove vie alla comprensione del ruolo delle donne nella Chiesa.

La filosofia e la teologia nelle loro varie branche, l'esegesi biblica, la pastorale hanno un compito urgente da svolgere con gli strumenti che a loro sono propri.

Le scienze umane aprono loro ampi spazi di documentazione e di fondazione. Ma anche la vita delle donne, anzi, dalla loro vita parte un richiamo fortissimo di novità. Le più mature non esprimono vane rivendicazioni di false parità: chiedono di costruire in pienezza e con coraggio, mettendo in discussione se stesse, la società e la Chiesa>>.

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