Lunedi, 27/02/2012 - Quando leggiamo di discriminazioni di genere, ci sentiamo com’è ovvio che sia pronte ad insorgere, reclamando la parità e l’uguaglianza.
Se apprendiamo che in una zona lontana qualcuno vuole obbligare una donna a sedere in un bus nei posti dietro, essendo i primi riservati agli uomini, pensiamo subito a un qualche luogo arcaico e siamo colte da enorme meraviglia scoprendo che è accaduto in Israele. Ma se uno Stato comunica alle donne che non possono offrire il loro cognome a figlie e figli, benché li abbiano portati in grembo e partoriti a differenza di quanto i padri fanno, la maggior parte delle cittadine non pensa di doversi opporre a ciò con fermezza, rivendicando rispetto e parità.
Ci riferiamo a un Paese retrogrado? Decisamente sì e si chiama Italia. È un Paese che dall’ottobre del 1979 continua a produrre proposte in Parlamento per mutare la patrilinearità dei cognomi, lasciandole però sempre decadere col succedersi delle varie legislature. Nella corrente, che è la XVI, né i due progetti esistenti al Senato, né i diversi presentati alla Camera, confluiti in un testo unificato, sembrano prossimi a vedere la luce.
Dei due al Senato uno tocca l’argomento di striscio. Nel suo progetto il Sen. Lauro (PDL), essendo primariamente interessato ad allungare i tempi per la cittadinanza italiana agli stranieri, formula una proposta subordinata allo scopo, penalizzata da fortissimi limiti. Si omette intanto di modificare l’art. 143 bis della legge del 1975, lasciando dunque un cognome maritale aggiuntivo per la donna, prima discriminazione pesantissima, e si prevede poi nel matrimonio la possibilità, non il diritto, di accostare il cognome materno al paterno, ove il marito sia d’accordo su questo.
Esaminiamo ora quello a firma della Senatrice Franco (PD), proveniente dalla scorsa legislatura. «Ai figli di genitori coniugati è attribuito, nell’ordine, il cognome del padre e quello della madre. Se uno o entrambi i genitori hanno un doppio cognome, se ne considera soltanto il primo» - che è dunque ancora una volta il paterno, a meno che non si sia verificata scelta diversa, dovuta alla concorde volontà dei coniugi. Una volontà concorde, che non prevede alcuna soluzione in caso di disaccordo, significa di fatto che il primo cognome - cioè il trasmissibile - del figlio avrà in prima posizione il cognome materno u n i c a m e n t e se il padre è consenziente. Patriarcale, sia pure in forma più moderata anche questa soluzione, dato che chi esercita la volontà ultima di scelta e decisione in un rapporto apparentemente paritario è solo l’uomo, che peraltro non è certo il genitore che i figli li gestisce e li mette al mondo in prima persona. Anche nel caso in cui, invece di due cognomi, i coniugi preferissero attribuirne uno soltanto - cosa che suscita perplessità d’altro tipo - c’è sempre il comune accordo privo di disaccordo che vige, in altri termini il solo assenso del padre senza che si preveda il caso inverso.
Da cosa nasce questa disparità sostanziale è evidente: dal timore dell’ostacolo, dalla difficoltà di liberarsi una volta per tutte dai vincoli del regime patriarcale, in una parola sola dai condizionamenti culturali esistenti, che incidono negativamente sui progetti.
A proposito di condizionamenti, appare utile adesso soffermarsi sul modo in cui la patrilinearità del cognome influisce sulla formazione dei figli.
I figli maschi, privati del cognome materno, hanno avuto e hanno dinanzi a loro due strade: o sprofondare nel rifiuto del femminile - assorbendo il messaggio di liceità della soppressione della donna che il sistema patrilineare trasmette e coltivandolo sino a pervenire all’estremo, ove altri fattori vi concorrano -, o avvertire la mancanza di quel femminile che rappresenta la loro alterità e ricercarlo. Alcuni di coloro che hanno scelto questa seconda via culturale si sono dimostrati spontaneamente tanto sensibili al rispetto della figura materna da avere spesso fatto richiesta, da adulti, dell’aggiunta del cognome materno al proprio di nascita.
Gli uomini, però, se hanno rischiato di più sul piano della formazione etica fruibile, sfiorando la possibilità della devianza, hanno sofferto meno sul piano dell’identità personale. Sono maschi, l’unico cognome che hanno li collega ad altri maschi e amen.
Le donne, al contrario, sono state sempre identificate col cognome di un rappresentante dell’altro sesso e il loro essere donne lo vivono in maniera conflittuale. Per di più l’art. 143 bis introdotto nel 1975, che liberava la donna da un’acquisizione straniante di un cognome non suo ma non si occupava di creare legami, fondava il solco della diversità tra madri e figlie. Le madri col loro cognome “da nubile” diventavano l’elemento estraneo al nucleo: l’asse dell’identificazione sociale univa e unisce ancora figlie e padri contro l’identificazione con le madri. Sarà probabilmente questa la ragione per cui le donne non hanno ancora maturato una così profonda coscienza di sé da rivendicare il diritto al cognome materno a gran voce, senza eccezioni e senza scappatoie paternaliste.
Passiamo adesso alla proposta di testo unificato della Camera, congelato nella 2ª Commissione Giustizia.
Il 145-bis attuale è prontamente sostituito da un altro, secondo il quale ciascun coniuge conserva il proprio cognome. Quanto ai cognomi dei figli si prevede l’attribuzione di un cognome di entrambi i genitori, a loro scelta se ne hanno già due, secondo la sequenza indicata in una loro dichiarazione concorde. In caso di disaccordo, l’Ufficiale di stato civile trascrive i due cognomi per ordine alfabetico.
Perché poi per ordine alfabetico e non per sorteggio, come prevedeva invece Rosy Bindi? Forse per far perdere meno tempo all’Ufficiale di stato civile, è possibile. Ora, al di là del fatto che in tal modo alcuni cognomi saranno esclusi sistematicamente nel tempo sino a una lenta ma progressiva estinzione, c’è qualcosa di più importante da rilevare.
Il progetto vorrebbe essere equo ma lo è solo nel caso di genitori adottanti, ovvero di genitori nessuno dei quali ha avuto in gestazione e poi partorito il figlio, che pertanto ha stabilito con loro - unico caso - una relazione paritaria sin dall’inizio. Rimane iniquo, invece, nei casi più usuali, di genitori cioè che generano un figlio, che sarà gestito per nove mesi dalla madre e che sarà partorito da lei.
C’è un passo, che ho letto di recente in un libro, che mi sembra appropriato riportare. In Nominare per esistere. Nomi e cognomi, Maria Pia Ercolini scrive «Gli antichi ellenici, che ammettevano la filiazione solo dopo il riconoscimento paterno, durante i riti natali emarginavano la madre e deponevano il bambino a terra per simulare una rinascita che nulla avesse a che fare con il ventre femminile: l’assegnazione del nome, da parte del padre, sanciva l’ingresso nel mondo giuridico». Beh, il volersi arrampicare sugli specchi allo scopo di essere “neutri” - per carità, ci sono cascata poco opportunamente anch’io, nelle prime stesure d’un mio progetto - reca in sé qualche cosa di analogo. Si stacca il figlio dal corpo materno con un atto che nega il perdurare di quella relazione quanto meno nei primissimi giorni dopo la nascita; ci si industria - consapevolmente o meno - nel nascondere che la madre è il primo oggetto d’amore, la persona che il figlio inizia a conoscere e riconoscere con le capacità sensoriali che possiede; si opera in poche parole una cesura, che mostra manifeste analogie proprio col rito ellenico citato.
L’incapacità di sancire quale primo cognome ex lege il cognome materno è un pericoloso residuo della mentalità patriarcale, è il nocciolo ultimo che occorre rompere e disperdere di quell’antica soppressione e oppressione, se si vuole che la riforma dei cognomi sia qualcosa di più di una emancipazione parziale o di un adeguamento ad altre leggi. Occorre che la relazione madre-figli sia ripristinata simbolicamente e che rispecchi la verità della natura. Solo così sarà metabolizzata dalla specie e potrà riconciliare gli uomini con il corpo femminile, troppo spesso ancora oggi oltraggiato, aggredito, violato.
Da una nuova legge possiamo e dobbiamo esigere molto più di una stentata e diseguale uguaglianza: dobbiamo esigere che porti allo scoperto il rimosso, che riconosca il valore della diversità con la prima posizione ex lege del cognome della madre (cambiabile per eventuale accordo dei coniugi, ove ci sia), che ciascun genitore scelga in totale libertà quale dei suoi cognomi attribuire al figlio, che il primo posto del cognome materno non determini un’unica trasmissibilità del cognome ledendo il pari diritto del padre e che siano i figli, da adulti, a decidere cosa fare dei loro cognomi, tenendosene uno o due, a loro scelta, perché è solamente a ciascuna figlia o figlio che occorre riconoscere il diritto e il potere di decidere cosa fare dei propri legami parentali che vengono espressi dai cognomi, del proprio personalissimo futuro, in una parola sola, di sé.
Il testo del presente articolo è già stato inviato ai Presidenti della Repubblica, delle Camere e del Consiglio, a membri del Senato e della Camera, a Ministre e Ministri competenti per il tema trattato.
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