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Se il crocifisso produce conflitti

Se il crocifisso produce conflitti

Simboli - Difendere la laicità dello Stato non vuol dire ‘antireligione’; su questo equivoco sono state costruite le polemiche sul parere espresso dalla Corte europea

Stefania Friggeri Lunedi, 11/01/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2010

Come è accaduto ieri al tempo del referendum (non si discuteva della salute e dell’autonomia della donna, ma di embrioni), come accadrà domani in un ipotetico referendum sul testamento biologico (non si discuterà di sofferenza dei malati e di autodeterminazione, ma di eutanasia e dell’avidità dei parenti), anche nel caso del crocefisso il discorso è stato astutamente deviato su argomenti laterali, lontani dal cuore del problema su cui era chiamata a esprimersi la Corte di Strasburgo. Che non doveva pronunciarsi sull’opportunità o meno di esporre il crocifisso nei luoghi pubblici, cioè sul suo significato religioso o culturale, ma doveva esprimersi sull’obbligo imposto allo Stato di mettere la croce nelle aule della scuola pubblica. E la Corte non poteva, in linea di diritto, decidere altrimenti: all’obbligo di ostensione del simbolo religioso, derivante da circolari e decreti reali scritti sotto il fascismo (che parlano di arredi scolastici come il ritratto del re) si oppongono tutti i principi fondanti il moderno stato di diritto (la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e non solo). Complimenti dunque all’ineguagliabile e sempiterna abilità politica del Vaticano e dei suoi alleati; uno sguardo invece di profonda delusione verso quei settori del mondo politico che dovrebbero difendere la laicità dello Stato di diritto, che non vuol dire “antireligione” ma difesa di un ambiente sociale civile in cui ogni spiritualità può fiorire e comunicare senza imporsi.

E come non vedere che la sentenza europea esprime il rispetto della libertà religiosa con le stesse parole con cui la Chiesa cattolica reclama il diritto di aprire le sue scuole? Ovvero: “diritto dei genitori di educare i figli con le loro convinzioni e col diritto dei bambini alla libertà di religione”. Inoltre, nel pretendere l’ostensione della croce anche in quelle pubbliche, la CEI finge di ignorare che il valore della libertà si concretizza nella difesa del diverso, della minoranza, dalle pretese della maggioranza. E infatti impressiona che in Italia, patria del diritto, il TAR del Veneto abbia legittimato la presenza del crocefisso ricorrendo ai risultati di un sondaggio; e che, avendo poi i ricorrenti portato il caso in Europa, venga da oltralpe il richiamo a rispettare i principi della nostra Costituzione secondo cui l’ostensione di un simbolo religioso, uno solo, offende non solo il principio di uguaglianza, ma la stessa libertà religiosa (il principio di maggioranza vale per la politica, non negli affari religiosi).

Ora, dal momento che il crocefisso non ha più senso dopo che il Concordato del 1984 ha abolito l’anacronismo della religione cattolica come religione di Stato (in cambio Craxi ha regalato a Ruini l’8 per mille), le reazioni scomposte dei vertici della Chiesa alla sentenza di Strasburgo sono doppiamente ingiustificabili. E gravi perché, nel difendere i privilegi di cui gode, la Chiesa entra in sintonia col clima culturale del paese: rifiuto del principio di uguaglianza, privilegi strappati in nome del popolo (del popolo cristiano per gli uni, del popolo della libertà per gli altri); il diritto va bene, ma i potenti devono essere messi in condizione di potersene infischiare. Perché questo è il grado infimo a cui la considerazione del diritto è arrivata nel nostro paese, sempre più lontano dall’Europa.

Ma se Ratzinger procede ancora più deciso di Wojtyla nell’erodere l’eredità del Concilio Vaticano 2°, i credenti perplessi e scoraggiati sono molti, ecclesiastici e non. Anche perché la debolezza della Chiesa sul piano culturale la costringe ad accettare l’argomento del crocifisso simbolo dell’identità nazionale (“povero Cristo, difeso dalla Gelmini che trasforma il crocifisso in un pezzo della tradizione ‘de noantri’, come la pizza, i tortellini, la mozzarella” così commenta sconsolato don Farinella). Ovvero: un crocefisso ridotto a un elemento retorico, esteriore, laddove “l’unico luogo in cui può stare degnamente una croce è un non-luogo: è la coscienza del credente” (don Antonelli). E infatti già nella storia è accaduto, e accade, che la fede è fiorita dopo che erano crollate le chiese; e che, al contrario, trionfavano le chiese, ma si indeboliva la fede. Per non dire che la croce bandiera dell’identità nazionale significa che il magistero si assume la responsabilità di creare un ambiente in cui prolificano i ghetti culturali/religiosi, e condivide lo spirito provinciale di un governo che la strumentalizza per consolidare una politica nazionalista e xenofoba, preoccupato di lucrare i benefici della confessione cattolica come religione civile.

Ma il procedere all’evangelizzazione attraverso i concordati o la carta bollata conferma quanto lo spirito della Chiesa di Ratzinger sia lontano dalla prospettiva ecumenica del C.Vaticano 2° secondo cui solo la fratellanza tra tutte le religioni, senza pretendere di assegnare il primato a un simbolo particolare, può aiutare l’umanità a risolvere i problemi del terzo millennio. Perché favorisce la nascita di una cultura comune che, col variare dei simboli e delle proposte educative, accompagna il variare della società (dall’Italia terra di emigrazione all’Italia terra di immigrazione).

Essendo comunque la società italiana ormai secolarizzata e multireligiosa, la presenza del crocefisso viene giustificata ricorrendo anche all’argomento secondo cui si tratta di un’icona universale, immagine dell’umanità sofferente, del Male riscattato dall’Amore. Qui, ancora una volta, non solo non viene riconosciuto ad altre culture, religiose e non, di essere portatrici a pieno titolo di umana solidarietà e fratellanza, ma si dimentica che la croce rappresenta per milioni di uomini il segno del potere, non dell’amore. Essa infatti evoca anche il sangue sparso dal colonialismo, ieri, e dal neocolonialismo, oggi; anche perché tutti i movimenti di rivolta che hanno visto nella croce non solo la redenzione trascendente, ma anche quella terrena, dalla fame e dalla schiavitù, sono stati repressi dal magistero, se necessario nel sangue. Simbolo storicamente individuato e definito, la croce conserva dunque un lato oscuro che non va ignorato in un contesto sociale multiculturale.

Che fare allora, avendo preso atto dopo la sentenza europea, di quanto la croce sia in Italia un segno potente e problematico? G. Zagrebelsky nella sua esperienza di vita ha avuto la possibilità di vivere sia il lato puramente teorico della dottrina, sia quello “snaturato dalla bassezza” dell’esperienza del giudice. Una bassezza però che fornisce la ragion d’essere della dottrina poiché mette la norma giuridica a contatto coi casi della vita. E non sempre quello che è saggio e giusto in teoria lo è anche nella pratica. E porta come esempio proprio il caso del crocifisso: anche se il principio di laicità porterebbe a togliere il crocifisso, in pratica questa decisione farebbe esplodere casi di reazione popolare e sarebbe strumentalizzata da movimenti estremisti e xenofobi. Ma poi Zagrebelsky racconta un aneddoto: anni fa, in seguito a insistenti richieste di rimozione, il Presidente della Corte Costituzionale acconsentì a togliere il crocifisso dall’aula delle udienze pubbliche. Ma poi la croce rimase al suo posto perché alcuni giudici minacciarono, se fosse stato tolta, di disertare le riunioni della Corte. Fu poi il momento di rinfrescare le pareti: a lavori terminati il crocefisso non fu più riappeso.



(4 gennaio 2010)

 

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