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SCUSAMI UOMO (racconto)

SCUSAMI UOMO (racconto)

RAPPORTO DONNA-UOMO. CONDIZIONI RESPONSABILITA'

Mercoledi, 15/03/2017 - SCUSAMI UOMO



Sono Telluria. Sono la madre di tutte le madri.

Sì, lo so, forse non vado di moda al giorno d’oggi. Pare che molte donne dell’inizio di questo terzo millennio vedano limitativo, quasi fosse una prigione, il ruolo principe per il quale il sesso femminile si trova su questa terra fin dalla prima apparizione del preistorico homo sapiens.

Nella legge di natura sono stata io a ricevere questo grande privilegio. Sono stata concepita, nel fisico e nello spirito, per la procreazione. Essere la custode del seme ricevuto dal maschio. In un atto d’amore far crescere quel progetto nel mio grembo e darlo alla luce. Mettere a disposizione il mio corpo, terreno fertile, per una opportunità di vita.

Per alcune di noi donne, troppe, questo piccolo miracolo che ogni volta si perpetua, in ogni spazio e in ogni tempo di questo vecchio mondo, è visto come un intralcio alla propria realizzazione e alla propria libertà, invece che una espressione della nostra cosciente consapevolezza.

Ma ora sono qui a sussurrare a me stessa, con tutta la concentrazione che si deve alle decisioni importanti: se non ora, quando.

Strano, in questo clima di odio e di rivalse regalate al vento della protesta per la protesta senza disegni, più si urla e più si pensa, come sempre succede, di aver ragione, sento di non aver bisogno di gridarlo fra le mura domestiche o scendendo nelle piazze.

Nel mio orgoglio di essere donna non mi ritrovo nel femminismo, così mal rappresentato e portato avanti che non parla alle donne, ma dice delle donne come se altri se ne dovessero occupare e assumersene la responsabilità. Dipendere comunque e sempre da altri, dalle scelte di altri. Anzi in questo clima ci sto malissimo, non si costruisce ma si distrugge nella sterile sola condanna, la colpa è sempre di altri, in questo caso del maschio. Me ne tengo distante, e ormai cominciamo ad essere stufe in tante di questa cecità. Nelle piazze della protesta aleggia il pericolo continuo della strumentalizzazione e manipolazione per altri fini.

Un sommesso se non ora, quando, continuo a ripeterlo come una cantilena che mi faccia compagnia nella determinazione, che non mi addormenti ma mi tenga particolarmente desta e mi convinca che, prima di tutto se non ora, quando assumere la Mia Responsabilità dettata da una profonda fiducia in me stessa, sicura di potercela fare?

Il mio piccolo-grande Io. Cominciare da me che sono la sola realtà che io possegga e l’unica che abbia il diritto di gestire.

Si fa luce un punto di vista differente proveniente dalla parte più interiore, da una forza atavica, quella appunto della vita di cui sono potenzialmente portatrice. Non accuse e recriminazioni, non richieste di diritti ma, prima di ogni cosa, la consapevolezza dei miei doveri. Portare a termine il compito giorno per giorno con costanza.

Non posso quindi lamentarmi di te: scusami uomo se troppe volte l’ho fatto.



Scusami figlio, se già nella nostra prima casa, la capanna, mentre tuo padre era fuori a procacciare il cibo per tutti noi, sono stata incapace di educarti e essere di esempio a tua sorella. Andavo correndo, pensando quello fosse il vero scopo della vita: arrivare, ma dove? Troppe cose importanti invece ho omesso, ho smarrito sulla strada. Mio invece il compito di vegliare su di voi per aiutarvi ad essere liberi, indipendenti nel fisico e nello spirito. Questo il regalo del mio amore. Non fare la chioccia ma indurvi serenamente ad un progressivo distacco da me.

Del resto da quando esiste l’uomo sulla terra a chi è stata assegnata, per naturale propensione e attitudine, l’educazione dei figli? Ho passato con voi tante ore della giornata a giocare, come primo rapporto con l’altro da sé. Avete imparato con me a muovere i primi passi nel mondo, a leggere, a scrivere e a far di conto nei lunghi pomeriggi nei quali Giove Pluvio con l’acqua compagna del vento strapazzava le pareti del nostro tugurio di legno facendo tremare le sottili palafitte.

Scusami padre e compagno, se mi sono fatta vittima eleggendoti così a mio carnefice. Ho sottostato silenziosa ai tuoi continui e ingiusti rimproveri. Ti ho reso vile nella vita privata e, di conseguenza come risultato di un metodo, in quella pubblica. Oggi la tua più chiara e pericolosa prerogativa. Se proprio non ti ho insegnato io ad essere un vigliacco, è certo che te l’ho permesso. E’ bastato succedesse una volta, un momento di distrazione e per te è diventata una abitudine. Sono reiteratamente complice della tua viltà. La forza che ti era stata donata per cacciare e difenderci dalle fiere non ti ho indicato come rivolgerla per il bene di tutti. E’ stato un boomerang per me e per la famiglia. Sono io, figlia e moglie-compagna, ad averti permesso di usarla come autorità contro di me, come violenza fisica e morale nei tuoi ruoli di padre e marito-compagno. Sempre e comunque conquistatore.

Tua connivente anche quando abusavi di nostra figlia, se non anche dei maschietti. Non ti ho aiutato a capire, a superare con la ragione e il cuore i tuoi bassi istinti.

Se non mi fossi messa sotto i tuoi piedi non avresti potuto calpestarmi.

Ho fallito. Non mi sono sottratta, anzi solo mi sono offerta alle prevaricazioni, senza capire che tu, uomo, solo quelle conoscevi nei miei confronti. Perché sono io ad essermi presentata a te debole e indifesa, piena di complessi di inferiorità, priva di alcuna autosufficienza e capacità di scelte autonome e coraggiose.

Non ti ho aperto gli occhi ma, assecondando la tua natura primitiva, non ho fatto altro che chiudere l’orizzonte del tuo sguardo e concentrarlo sul tuo egoismo e egocentrismo, sulle tue pretese.

Nella convivenza ci siamo battuti in un corpo a corpo continuo a cominciare dai rapporti familiari. Sono colpevole. Il fatto stesso che mi fosse stato concesso di donare la vita mi doveva far comprendere che ero io a doverti mettere su quella strada, quella per migliorarci vicendevolmente, per aiutarci a crescere come esseri umani.

Costruire insieme un mondo più giusto.

Fin da quando eri figlio evidentemente non devo averti amato abbastanza e nella maniera più appropriata per insegnarti ad essere compagno e padre. E’ stato più facile difenderti dagli attacchi del mondo, preservarti dalle prove dicendoti che eri tu il migliore, il più bello, il più forte, il vincente. Dirti che un uomo vero non chiede scusa, non piange, deve conoscere solo i suoi diritti e concretizzarli nell’esercizio del potere. Ti ho così indotto a pensare che l’emozione, il sentimento siano sinonimi di debolezza. Non ti restava che rifiutarli, combatterli, nasconderli sotto la sabbia e sostituirli con il distruttivo silenzio dell’intelligenza del cuore che crea tanto deserto nell’anima.

Così facendo non ti ho aiutato a soffrire e quindi ad amare, unica opportunità di risalita quando tutto sembra essere perduto.

Se non ora, quando cominciare a rispettarmi veramente ed insegnarti a rispettarmi? Ma se non lo faccio io per prima tu non potrai seguirmi.

Devo confidare nel processo imitativo, condurti per mano.

Come avresti potuto abusare di me, palparmi il culo e le tette senza neanche avermi stretto la mano; come avresti potuto rovistarmi nelle parti più intime senza neanche dirmi buongiorno, se non fossi stata io a offrirtele, sfruttando la tua rozzezza per i miei secondi fini: la speranza in favori e denaro, avanzamento di carriera? O forse, con più onestà, avevo sperato che dopo essere passato per il corpo, finalmente pago, poi avresti guardato dentro i miei occhi?

Non è stato il modo di aiutare la tua indole malsana, anzi così ho solo permesso che tu la esercitassi.

Il mostro, l’orco, non sempre, ma a volte, potrebbe essere comodo capro espiatorio alla nostra imperfezione di donne.

Fa pensare di essere tutti nel giusto, chi si dà e chi prende. Ognuno si è creato l’alibi che gli calza a pennello e con il quale giustificare il suo ruolo indotto di vittima e conseguente carnefice in perfetta sintonia.

Devo qui riconoscerlo, mettermi finalmente a nudo. In modo spietato accettare la mia stessa provocazione. Essere lucida.

Attraverso le generazioni sono stata sempre una grande contraddizione. Come mamma ti ho convinto della tua incondizionata forza, espressa in tutte le sue forme e del suo conseguente esercizio sconsiderato. Come tua donna mi lamento e mi sento vittima di ciò che io stessa ti ho invitato a fare e a considerarti. Insomma un gran pasticcio nel quale tu non ti sai districare. Non puoi essere che confuso, anche quando apparentemente sembreresti far parte del gruppo dei migliori, di quelli che veramente contano o magari degli intellettuali o dei… poeti. Ho capito che neanche la cultura può esserti di aiuto nell’essere migliore come essere umano, nelle azioni. Con apparente innocenza, sordo ad ogni richiamo alla tua sensibilità continui a nutrirti di bisogni primari.

Hai fame mangi. Hai sete bevi. Fai l’amore dormi.

E tutto ciò in una catena che dura da millenni.



Ma adesso lo voglio ancora ripetere: se non ora, quando riconoscere insieme i nostri limiti e trovare con te, uomo, quell’incastro perfetto delle menti e delle anime come avviene nella festa dei corpi nell’atto del concepimento? Dare alla luce una nuova vita che ci veda complementari. Rispettosi del diverso, ambedue secondi a nessuno ma solo impegnati nello sviluppo ognuno delle proprie caratteristiche, trasformandole al positivo. Per questo nobile obiettivo non dovrò rivolgermi in alto, fare appello alle istituzioni chiedendo e pretendendo le umilianti “quote rosa”, non affidarmi al contentino come esito e risposta agli striscioni portati avanti come una gonna comune nelle marce dei cortei che raccolgono tutte quelle donne che ancora pensano che la celebrazione dell’8 marzo, la Festa della Donna, sia una espressione di libertà, e non, come in realtà è, solo un avvilente ghetto dove si celebra un handicap che puzza di mimosa. Una mimosa sfiorita, dai vizzi pompon gialli che ha perso ogni sua freschezza, che grida la morte nell’utero.

Come vere esaltate, camminando in gruppo, percorrendo le vie delle città dell’italico stivale, abbiamo insensatamente offerto nella minestra che avrebbe contribuito a fare crescere le nostre figlie il fuorviante slogan: Io sono mia. La figa è mia e la do a chi mi pare. Ed ora ne vediamo i risultati: veline ed escort legalizzate dalle madri. Nuovi nomi per un mestiere vecchio come il mondo. Accanto al criminale sfruttamento come carne da macello, oggi più che mai, con epiteti che sembrano più nobili e eccentrici, la prostituzione - chiamiamola in modo corretto e chiaro - si presta troppo spesso come facile scelta… di impiego di giovani fanciulle e autorizzata dalle piazze. Ma, attento uomo, da quelle stesse piazze, in modo schizofrenico, arriva l’indignata condanna verso chi se ne approfitta.

In quel giorno, la nostra festa, un trecentosessantacinquesimo dell’anno

- questa la considerazione che nutriamo per noi stesse -, abbiamo chiesto timorose il permesso a mariti e compagni, facendoli sentire tolleranti e generosi per concedere tanto ardire, per quelle sconsolanti cene di tavolate di sole donne in ristoranti addobbati con festoni come a carnevale.

Nell’eccitazione ci siamo mascherate da femmine liberate e felici per una notte, pensando che la soluzione fosse aver eliminato te, maschio.

Ma come su volti tristi di clown ho visto scivolare sulle guance di molte una lacrima. Non se l’erano bevuta tutta quella gioia fasulla. Non restava che leccarsi l’amaro sale che sgorgava dagli occhi.



Sì, ne sono pienamente consapevole sono io, donna, a dover per prima cambiare, e aiutarti a cambiare… Eva aveva una costola in più di Adamo.

“La donna esiste affinché grazie a lei, l’uomo diventi saggio” (Karl Kraus).

Se tu, uomo, non hai ancora capito molto, direi quasi niente, la colpa è mia. Sono sei pagine che vado riconoscendolo.

Una vera nuova rivoluzione. Cominciare da me, unica misura certa a mia disposizione, da una mia autoanalisi, dalla mia scelta di responsabilità all’interno del mio micro-cosmo. Se voglio la libertà la devo conquistare passo passo.

Cominciare dall’individuo-donna, animato da coerenza e coscienza, che con coraggio desideri ottenere il vero cambiamento della mentalità nei ruoli di figlia, madre, compagna-moglie e con essi nella società tutta.

La costruzione, mattone su mattone, si realizza dal basso e si possono salire tanti piani facendo affidamento su solide fondamenta.

Nessun edificio si è mai cominciato dall’alto.

Delle parole si dice che, perché abbiano il loro effetto, debbano volare alto. Ma, forse, non è vero neanche questo. Sento invece che le parole, soprattutto in questo caso, debbano aderire, sentirle addosso, sulla pelle, camminare e far tremare la terra nel suo rinnovamento.

Riappacificare con parole e azioni il mondo.

Ed ora mi sembra che solo l’amore possa essere verità: dividendosi si moltiplica. E’ quello che prova una madre quando ha tanti figli.

La vita dell’amore dopo la morte dell’odio.



Non c’è più tempo… se non ora, quando?





Luciana Vasile



Racconto tratto dal libro

DANZADELSE’ ho ballato per Paparone e altre storie

Ed. Prospettiva Editrice 2012

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