- Torna il tema degli investimenti privati nella scuola pubblica. E resta l’anomalia dell’ora di religione cattolica, per niente facoltativa
Stefania Friggeri Lunedi, 03/11/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2014
All’interno di un quadro politico confuso che genera disaffezione e pessimismo emerge in primo piano il tema della scuola e i media riportano le proteste degli insegnanti, precari e non, che denunciano gli effetti di una politica di risparmi e di tagli: disoccupazione, classi sovraffollate e prive di insegnanti di sostegno. Eppure anche nella scuola vi sono situazioni di intollerabile privilegio: le scuole private, definite “paritarie”, nella stragrande maggioranza cattoliche. Come è noto la religione cattolica, eletta a “religione di Stato”, venne posta “a coronamento dell’istruzione pubblica” nel 1929, grazie al Concordato col Vaticano. Fu una mossa di grande impatto mediatico che permise a Mussolini di superare un difficile momento politico. Nonostante alcune voci autorevoli, anche di cattolici, chiedessero l’abolizione dell’ora di religione, un nuovo Concordato venne stipulato nel 1984 da Craxi che, con sottigliezza politica, abolì l’anacronistica espressione che definiva quella cattolica “religione di Stato”, ma contemporaneamente nel nuovo Concordato accettò che l’insegnamento della religione cattolica (IRC) venisse inserito in tutti gli ordini e gradi di scuola. “Obbligatorio nell’orario, facoltativo nella scelta”, l’IRC costringeva gli studenti “non avvalentesi” a rimanere a scuola: ma poiché era complicato organizzare delle specifiche attività a loro favore, avveniva spesso che gli studenti fossero mandati fuori classe per dedicarsi allo studio individuale, soli o con un insegnate disponibile. Non poco il disagio per gli alunni e le complicazione organizzative anche perché la CEI non voleva che l’insegnamento venisse previsto alla prima o all’ultima ora, nel timore di vedere svuotare le classi. Anche se questo non avrebbe privato l’insegnante di religione dei suoi privilegi: gli basta anche un solo alunno per fare una classe e se proprio non ha nemmeno un alunno, viene trasferito sulla cattedra di un collega. Il quale dunque può perdere il posto, a differenza dell’insegnante di religione che sale in cattedra non perché ha superato un concorso, ma perché è stato “nominato” dal vescovo, cui spetta anche il diritto di allontanarlo dalla cattedra di religione se giudica il suo comportamento non conforme ai doveri di un bravo cristiano (ad esempio se divorzia). Quindi anche se l’IRC è una materia facoltativa nel tempo si è provveduto a renderla di fatto una materia curriculare. Ad esempio nel 2001 la Moratti ha inserito l’ora di religione nel monte ore delle discipline che obbligatoriamente lo studente deve frequentare se vuole essere ammesso all’anno successivo. Ma nel 2003 la ministra ha superato se stessa: ha bandito un concorso riservato per mettere in ruolo circa il 70% degli insegnanti di IRC. In ogni caso chi insegna l’IRC è già privilegiato di suo perché gode di regalie ingiustificabili sul piano dell’eguaglianza dei diritti: scatti retributivi e un trattamento assimilabile a quello dei colleghi di ruolo (permessi, giorni di malattia, avvio del servizio al primo settembre e fine al 31 agosto successivo, con le ferie pagate,un beneficio di cui non godono i precari il cui contratto scade, per la maggior parte, il 30 giugno). Altra tappa della favorevole “dereguletion” è stata quella dei crediti. Essendo una materia facoltativa scelta in libertà di coscienza, l’IRC venne esclusa (Decreto Ministeriale 1998) dai crediti che dal terzo anno delle superiori lo studente può accumulare e poi presentare all’esame di Stato, una specie di “dote” che mette insieme sia la media dei voti ottenuti nel triennio, sia la valutazione da parte degli insegnanti delle attività extrascolastiche. Ebbene l’ordinanza ministeriale del marzo 2007 ha stabilito che i docenti di religione “partecipano a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico agli alunni che si avvalgono di tale insegnamento”. Con straordinaria ipocrisia lo stesso diritto viene attribuito anche agli insegnanti degli alunni “non avvalentesi”, che però non ci sono in tutti gli istituti, così che l’ordinanza, difficilmente applicabile, ha generato una grande confusione dentro la scuola. E fuori dalla scuola, nei tribunali, dove un aspro e infinito contenzioso è stato attivato dalle forze che intendevano preservare la laicità della scuola pubblica, o quello che ne rimaneva. La “via giudiziaria” alla laicità, promossa dai ricorsi di privati e di varie associazioni - come la Federazione delle Chiese Evangeliche, la Tavola Valdese e l’Unione delle Comunità ebraiche - contestava sia la disparità di trattamento fra compagni sia il ruolo di privilegio che viene concesso all’insegnante (che, pur essendo docente di una materia facoltativa, in realtà fa un altro passo avanti verso l’equiparazione con chi è docente di una materia curriculare). La lunga e dispendiosa peregrinazione degli avvocati è approdata finalmente nel 2010 alla pronuncia definitiva del Consiglio di Stato che, ribaltando una sentenza con cui il TAR del Lazio aveva ribaltato una precedente ordinanza (sic!) concedeva agli insegnanti dell’IRC di concorrere col loro voto alla determinazione del credito. Nessuna meraviglia: oggi in Italia, grazie ad una formula interpretativa qui e ad una revisione ministeriale là, la Chiesa cattolica ha ormai strappato una condizione di totale omogeneità rispetto alla scuola pubblica con la complicità di tutti i governi. Perché qualsiasi governo sa che la scuola rappresenta per la Chiesa cattolica un punto di forza fondamentale, irrinunciabile. Approfittando dell’incertezza del diritto in cui sta annegando il senso civico del paese, anche l’attuale ministra, Stefania Giannini, al Meeting di Comunione e Liberazione ha anticipato le linee della sua riforma della scuola che, tra l’altro, prevede ulteriori forme di promozione della scuola privata, a partire dal finanziamento. Ma era una scuola privata “paritaria” quella di Trento dove la madre superiora ha proposto ad una insegnante, di cui sospettava la tendenza lesbica, un percorso riabilitativo. La riforma Berlinguer del 2000, quando ai tempi dell’Ulivo i Popolari premevano per restituire alle scuole confessionali un ruolo importante, ha riconosciuto sì la “parità” scolastica alle scuole private, ma impegnandole ad adottare una serie precisa e dettagliata di condizioni che avrebbero reso la scuola privata e quella pubblica “equipollenti” (?). E l’impegno va rispettato perché una scuola privata non “paritaria”, essendo libera di perseguire un proprio progetto culturale, non è obbligata a garantire un insegnamento pluralista come deve fare la scuola statale. Ma, come si è visto dai pochi esempi riportati, col passare del tempo lo spirito della legge è stato annebbiato, stravolto da interpretazioni capziose ed interessate; e le successive manipolazioni ministeriali hanno trasformato la “parità” nella libertà di fare a proprio piacimento, senza rinunciare alle sovvenzioni statali, come dimostra il caso di Trento. Oggi le scuole private rappresentano un modesto 5%, destinato a diminuire per la difficoltà delle famiglie di pagare la retta. E forse è anche per questo che la ministra Giannini tenta di promuovere un sistema pubblico-privato, insistendo sul merito delle scuole paritarie che, a suo dire, permettono allo Stato di risparmiare: sono calcoli interessati e comunque lo studente paritetico costa meno allo Stato perché costa di più alle famiglie, a quelle che se lo possono permettere. Ma oggi, nel nome della privatizzazione, quella scuola che negli auspici di Calamandrei ha la funzione strategica di formare il cittadino facendolo crescere in un ambiente multiculturale, alieno da un approccio ideologico o confessionale (come chiede la Costituzione), rischia addirittura di essere stravolta da un progetto antidemocratico ed alienante che tutto trasforma in merce. E al Meeting di Comunione e Liberazione la ministra Giannini ha lanciato la proposta dell’ “investimento delle imprese private nella scuola pubblica”.
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