Vittime della tratta - Ricchi uomini d’affari comprano ragazze anche giovanissime e le esportano come fossero merce. Un mare di schiave, un convegno a Roma ha parlato di un fenomeno globale in espansione
Dalla Negra Cecilia Domenica, 27/05/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2012
Arrivano dalle Filippine, dallo Sri Lanka, dall’Indonesia. O ancora dal Nepal e dall’Etiopia, ma sempre in fuga da condizioni di vita disumane e in cerca di una speranza. Nei paesi che raggiungono non sono considerate lavoratrici, perché non esiste un quadro di riferimento normativo capace di inquadrarle, né alcuna forma di tutela in grado di accoglierle per ciò che sono: prima di ogni altra cosa, esseri umani. Sono le donne vittime della tratta, spesso erroneamente considerata un fenomeno relativo al solo sfruttamento sessuale, e che riguarda invece quella moltitudine invisibile di migranti e straniere che nei paesi in cui arrivano prestano il proprio servizio come lavoratrici domestiche. Tra le quattro pareti di una casa non è dato guardare, ma sono i numeri e le statistiche, per quanto parziali, a raccontare di un fenomeno allarmante in grado di unire, nell’inadeguatezza, la sponde sud e nord del Mediterraneo. “Un mare di schiave” il titolo dell’incontro romano organizzato dalla ong “Un ponte per..”, che ha riunito una delegazione di operatrici sociali egiziane, giordane e libanesi con rappresentanti dell’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (OIM), le Cooperative “Be Free” e “Parsec”, la Casa dei Diritti Sociali, oltre all’Arma dei Carabinieri e alla Polizia di Stato, per una giornata dedicata alla protezione delle vittime della tratta. Un convegno pensato per ragionare insieme su buone pratiche da condividere nell’ottica di proteggere le donne vittime di violenza, in Medioriente come in Italia, e per presentare il progetto “Una risposta olistica al traffico, violenza e sfruttamento delle lavoratrici migranti nel Mashrek”, che vede coinvolti, oltre agli attori italiani, anche la Jordanian Women’s Union, l’Associazione Amel per la protezione delle donne migranti in Libano e il Centro per l’assistenza alle donne egiziane Cewla. Un progetto condiviso e nato dalla volontà di affrontare il tema della sfruttamento femminile in quelle aree geografiche in cui, con gli anni, il lavoro domestico prestato da donne migranti è diventato un fenomeno di sempre maggiore entità, assumendo proporzioni allarmanti in termini di conseguenze fisiche e psicologiche ai danni delle vittime coinvolte.
Una vittima a settimana
È in Libano che si registra la situazione peggiore: nel 2009, secondo i dati ufficiali, su oltre 100mila visti riconosciuti a cittadini afroasiatici, l’88% risultavano concessi a donne impiegate in case private. Già nel 2007 l’organizzazione Human Rights Watch denunciava che almeno 95 lavoratrici domestiche avevano perso la vita, di cui 24 misteriosamente “precipitate” dalle finestre dei palazzi in cui prestavano servizio. In un anno, in un paese in cui il totale dei migranti arriva fino a 800mila, tra le donne si registra una vittima a settimana. Non esistendo stime ufficiali, perché manca qualunque tipo di quadro normativo di riferimento, gli esperti del settore parlano però di numeri che andrebbero moltiplicati almeno per 3: circa 250mila sarebbero le donne migranti impiegate come lavoratrici domestiche - senza contratti, tutele, diritti - soltanto in Libano. Poco più a sud, in Giordania, sono oltre 70mila le lavoratrici domestiche straniere, con numerosi casi di suicidio documentati dallo stesso Ministero del Lavoro, che ha parlato chiaramente di “condizioni disumane”. Si scrive lavoro domestico, ma si legge schiavitù: anche in Egitto sono oltre 2 milioni i lavoratori - donne e uomini - stranieri, anche in questo caso privi di qualsiasi tutela da parte dello Stato. Un paese, questo, che sconta anche un fenomeno di migrazione al contrario: qui sono i ricchi uomini d’affari provenienti dai vicini paesi del Golfo ad arrivare per comprare ragazze anche giovanissime, che in cambio delle cifre versate alle famiglie sono esportate come merce, condannate alla strada o costrette al lavoro domestico a servizio di donne più facoltose. Vittime due volte, perché private di diritti nel proprio paese prima, e lontano da casa, dopo, come racconta Azza Soliman, avvocata egiziana che si occupa di diritti delle donne e assistenza alle vittime di tratta per la Cewla. “Mancando forme normative capaci di tutelare le vittime - racconta - il lavoro di aiuto, protezione e assistenza, sia legale che psicologica, è di fatto delegato a ong e associazioni della società civile”. Un contributo prezioso, ma che non basta. Quella in cui vengono a trovarsi queste donne è una condizione generalmente definita dagli esperti di “neoschiavitù”, a causa delle privazioni di libertà e degli abusi cui sono sottoposte, e che non è molto diversa in Italia, dove il lavoro di associazioni e organizzazioni femminili della società civile resta centrale, forse anche a causa di normative che continuano a considerare la migrazione come un fenomeno emergenziale, e non come base per la costruzione di un progetto di vita titolare di dignità. Nel nostro paese è l’art. 18 del Testo Unico sull’Immigrazione (D.Lgs 268/98) a tutelare le vittime di sfruttamento, che prevede la possibilità del rilascio di uno speciale permesso di soggiorno dando la possibilità a donne e uomini di sottrarsi alla violenza, entrando in un programma di assistenza ed integrazione sociale. Contro la tratta umana esistono invece gli artt 600 e 601 (L.228/2003), che prevedono la reclusione da 8 a 20 anni per chi si macchia di questo crimine. Eppure, a fronte di un sistema che subordina la “regolarità” del migrante al contratto di lavoro, è inevitabile l’istituzione di una sorta di diritto di proprietà del datore di lavoro sul dipendente: una disumanizzazione che confonde anche il piano del diritto.
Globalizzazione della violenza
Donne, quelle presenti al convegno, che hanno guardato in faccia le primavere arabe e non a caso ne sono state protagoniste. Mutamenti, quelli che hanno interessato il Medioriente, capaci di evidenziare un fenomeno di più ampio raggio, che da sud a nord del Mediterraneo ha investito anche paesi europei nella comune rivendicazione di un diverso modello economico, di uno sviluppo altro, sostenibile, più umano. In un contesto mondiale che ha visto negli ultimi due decenni un restringimento sempre più forte dei sistemi di welfare e, parallelamente, un inasprimento delle politiche migratorie internazionali - nel tentativo di rendere l’Europa una “fortezza” dai confini invalicabili - anche i flussi migratori si sono globalizzati, investendo in modo sempre più esteso paesi incapaci di accoglierli, politiche sorde e arretrate. Un elemento, quello della tratta di donne ridotte in schiavitù per sfruttamento sessuale o lavorativo, che è segnale e insieme conseguenza di un pensiero globale che ha finito per ridurre uomini e donne a forza-lavoro, confondendo le carte del valore e i piani del diritto. È sufficiente guardare ad un qualsiasi cantiere edile italiano per capirlo, o prendere atto di quel “caso badanti” che ha visto nell’emancipazione della donna occidentale la delega del lavoro di cura familiare ad altre donne, meno abbienti, più svantaggiate, costrette spesso ad abbandonare i propri contesti domestici per prendersi carico di quelli altrui. Donne che neanche all’interno dei nostri confini sono spesso considerate al pari di altre lavoratrici, né dal punto di vista normativo, né da quello umano. Confrontarsi per crescere assieme, dunque. Perché, ancora una volta, sfruttamento, abusi e violenze nei confronti delle donne si confermano fenomeni capaci di travalicare i confini, assumendo tratti transnazionali e globali.
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