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Sanità pubblica e interessi corporativi

Sanità pubblica e interessi corporativi

Salute BeneComune - Solo la qualità, e non la mera esistenza dei servizi, rappresenta il ritorno in termini di salario reale delle tasse e dei contributi dei lavoratori

Michele Grandolfo Lunedi, 10/02/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2014

Alla fine di dicembre è ricorso il trentacinquesimo anniversario della legge di riforma sanitaria. Le leggi 405/75, 180/78, 194/78 e 833/78 sono la risultante delle lotte dei movimenti, a partire da quello più potente e radicale delle donne, con la rivendicazione dell'autodeterminazione e del rigetto del pensiero unico. Ma fatte le leggi si è ritenuto non più necessario il conflitto come capacità della comunità di rivendicare il miglioramento dei beni comuni, la salute in primis. E si è dato spazio a tutti i processi autoreferenziali delle categorie professionali coinvolte nei servizi pubblici. Anche i partiti hanno operato a difesa degli interessi corporativi. Nonostante la presenza di persone per bene, stimata da me al 30%, con un 50% di palude che si orienta come tira il vento, il 20% di mascalzoni, si è efficacemente organizzato per difendere gli interessi corporativi conquistando buona parte della palude. Le buone pratiche delle persone per bene sono state ostacolate dai politici e dagli amministratori e dai dirigenti da loro scelti, sotto la pressione dell'azione corporativa degli altri operatori. Le organizzazioni sindacali professionali e le confederazioni sindacali generali hanno enormi responsabilità. Queste ultime hanno disatteso una loro funzione essenziale: quella di garantire, fatti salvi i diritti sindacali legittimi, la qualità dei servizi pubblici. Solo la qualità, infatti, e non la mera esistenza dei servizi rappresenta il ritorno in termini di salario reale delle tasse e dei contributi dei lavoratori. Si è dato così ampio spazio alla minoranza dei mascalzoni per difendere miserabili bruscolini, peraltro avvelenati, perché il perseguimento della qualità è il motore del miglioramento delle competenze professionali e quindi del vero prestigio degli operatori. Ma cosa significa bene comune, come si costruisce, come si valuta, quali indicatori, chi partecipa al processo della valutazione e, prima, a quello della programmazione, quali attori hanno titolo, e, in particolare, quale è il ruolo della comunità e con quali strumenti? La legge 833/78 dava indicazioni generali che andavano sviluppate. I movimenti degli anni settanta hanno avuto intuizioni geniali, che però non sono state tradotte in conseguenze operative, quali responsabilità di programmazione, valutazione e formazione. Parlo per esperienza personale avendo operato su tutto il territorio nazionale, nessuna regione esclusa, in contatto con tutti i livelli politici, amministrativi, dirigenziali e di base. Potrei raccontare infinite vicende sulle straordinarie e geniali attività di sanità pubblica realizzate da semplici operatori (più spesso operatrici) e sull'azione sistematica di ostacolo e delegittimazione che hanno scatenato in reazione. Bisogna ripartire dal concetto di salute come bene comune con lo sviluppo di tutte le conseguenze operative, rimettendo in discussione il paternalismo direttivo e il modello biomedico di salute. Bisogna ripartire dalla Carta di Ottawa e dalle implicazioni che ne conseguono. Bisogna avere consapevolezza che la comunità non è sommatoria di individui e ciò comporta lo sviluppo di concetti innovativi delle strategie operative. Bisogna partire dall'affermazione, di cui rivendico la paternità, che un servizio sanitario pubblico universale ha ragione di esistere se, e soltanto se, è in grado di ridurre gli effetti sulla salute delle disuguaglianze sociali. Questo dice, in ultima istanza, l'articolo 32 della nostra meravigliosa e ineguagliata Costituzione, che va difesa ad oltranza.



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