Domenica, 13/04/2014 - Il sangue che cola sui titoli di testa di American Psycho di Mary Harron non è che succo di mirtillo, innocuo prodotto da Cake Design, con espressione di moda.
È Vogue di aprile che, con un servizio e un video sul suo canale Youtube, propone una riflessione sulla violenza maschile. Il servizio, a firma del fotografo di moda Steven Meisel, è accompagnato da un articolo di Ivan Cotroneo. In sintesi vi si dice: questo sangue non è che un gioco, ma la violenza sulle donne è tutt’altro che succo di mirtillo.
Presentato con il titolo Cinematic, secondo la direttora di Vogue Sozzani (citiamo un’intervista sul sito) intende “usare la moda per comunicare qualcosa d’altro; "dare l’opportunità alle persone di esprimersi, in modo da sensibilizzare il pubblico". Dice ancora: "Sono consapevole: mi assumo rischi in ogni momento, lo so bene, ne sono davvero consapevole. Non è che non mi interessi, è che penso che la moda sia davvero un ottimo mezzo, e che se usato nella maniera giusta, può parlare a chiunque”
Tutto è benvenuto per sensibilizzare l’opinione pubblica a questo importante tema. Ma è davvero così? Sensibilizzare, parola interessante, qui penso stia per “favorire una presa di coscienza”. Generare indignazione e, conseguentemente, un cambiamento. E se, pur con ottime e condivisibili intenzioni, questo servizio ottenesse esattamente l’effetto contrario, cioè desensibilizzasse?
In questo caso sarebbe controproducente. Propendo per questa interpretazione per due elementi testuali che spiegherò sinteticamente.
Uno: le didascalie. Le immagini sono un linguaggio tendenzialmente universalistico, se rappresentano una scena di violenza suscitano una naturale distanziazione in molti, se non in tutti. Se la persona oggetto di violenza è una donna, bellissima e meravigliosamente vestita, la rappresentazione si carica di significati più ambigui e diverse sfumature. Ma la didascalia che contiene la presentazione della marca di abiti e accessori, inevitabilmente porta a interpretare le immagini all’interno di un genere testuale perfettamente noto e consueto come quello del servizio di moda, e pertanto sono rese presentabili, accettabili e dunque indirettamente legittimate. La cornice testuale convenzionale, comunemente accettata del servizio di moda le normalizza.
Due: l’ambientazione delle scene di violenza in un altro genere testuale, familiare e convenzionalmente riconosciuto: il film horror. Altra condizione che rende fruibili le immagini di violenza. Ma la realtà è peggio, ci avverte più volte Ivan Cotroneo nell’articolo di commento che sfoggia - strano! - più la sua cultura cinematografica che la conoscenza dei dati del fenomeno della violenza maschile sulle donne nel mondo.
(Per poter portare alla considerazione la realtà del fenomeno qualche elemento di realtà, appunto, sarebbe occorso di certo).
Il servizio “shifta” pericolosamente sul piano del compiacimento estetico – onirico. E rischia una complessiva normalizzazione della violenza, che finisce per rientrare in un ambito comunicativo comprensibile, accettabile e re-interpretabile dalle lettrici e dai lettori. Rende le scene di violenza scioccanti ma irreali, e perciò assorbili e persino godibili, anche se di certo parto di una fantasia morbosa, e, pur senza volerlo, ha l’effetto collaterale certamente indesiderato e indesiderabile di risultare rassicurante.
Questa violenza così messa in cornice non ci riguarda, non ci tocca, ci desensibilizza, appunto, che è veramente tutt’altro che ciò che il servizio voleva ottenere.
L’affermazione “Vita peggio che horror” si rovescia - data appunto la messa a distanza della cornice testuale - in un “Meno male, è tutto un film”. In fondo non c’è niente di vero, è tutta una costruzione, una rappresentazione che di certo dice molto sulla natura profonda dell’umanità, sull’inconscio e su tutto quello che volete voi, ma non ha nulla a che fare con la realtà di ogni giorno, con noi, i liberi, i normali. Ecco, siamo salvi.
E questo umanamente lo si capisce: di fronte a un fenomeno così tragico, di così grande portata, di qualche scappatoia, di qualche pretesto, abbiamo bisogno tutti. E così il sangue non è che succo di mirtillo. Sollievo.
Dubito che sia possibile rendere la violenza maschile sulle donne oggetto di una rappresentazione senza trasformarla in uno spettacolo. Macabro e affascinante. Accettabile perché (ri)costruito non da statistiche e interventi di esperti, ma in una cornice estetizzante e fuzzy, che finisce senza volerlo per trasformare la violenza in una proiezione catartico - salvifica e non in una presa di coscienza efficace.
Anestetizza alla violenza e come un oppiaceo è un palliativo pericoloso. Citando un passo illuminante dell’articolo di Ivan Cotroneo che accompagna il servizio, sedersi a tavola con Hannibal the cannibal non è possibile. Si può solo leggere le sue avventure o assistervi in un film. Si può solo fruirne, cioè, in forma di rappresentazione.
Peccato che a questa tavola noi, donne e uomini, siamo seduti da tempo.
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