Si muore da donne in tanti modi escogitati da uomini. Lentamente, cruentemente o invisibilmente, se il cadavere rimane per un mese in cantina. C’è anche qualcuna che muore dentro, tenuta in una specie di pollaio dietro casa a far figlie e figli: senza coltello. All’americana. All’americana come le maquilladoras di Ciudad Juarez che lavorano in nero, tanto alla pensione non ci arrivano.Si muore all’italiana, fingendo che sia per follia.
La cronaca è più attenta alla “marca” dell’uccisione che alle le vittime, chiamate soprattutto per nazionalità: pachistana, marocchina e, per disdetta dell’orgoglio nazionale, italiana. In quest’ultimo caso spuntano altre qualità, madre, figlia, moglie, operaia, bella, o altro per aggiungere aggravanti, perchè la morte di una donna in se non ne ha una relativa.
A guardare i numeri, quelli veri, la nostra indignazione non può montare né affievolirsi. È l'indignazione di sempre, che nasce dai fatti, e non per le parole che scandiscono i detentori dell’informazione. .
La politica, costretta da pochi anni a nominare la violenza sessuata, l’affronta come sa, facendo quasi nulla o facendo peggio di quando preferiva non curarsene. Sì, perché nominandola la usa spesso a pretesto per provvedimenti inaccettabili.
Ancora la cultura ufficiale discute, ma come, delle ragioni della violenza attribuendole ad ignoranza e follia, che i saggi di oggi si fregiano di aver superato. Come si cambia ciò c’è nella testa di un uomo che uccide una donna? La risposta ossessiva ed offensiva per le donne che sono in pericolo oggi è sempre la stessa: il lento cambiamento dell’educazione di domani. Aspettare, ed aspettando accettare la fatalità delle morti quotidiane.
È “fatale” anche che, dopo la morte di una donna venuta in Italia a cercare di star meglio, si tiri in ballo l’integrazione culturale. Quella delle religioni, o quella dei costumi. È l’integrazione facile, perché ha come unità di misura il corpo delle donne. Un’unità di misura per patti tra uomini, che possono anche auspicare l’accoglimento “di norme tribali per la risoluzione delle controversie familiari”.
C’è poi l’integrazione difficile, quella che né la politica, né vuole vedere. Quella tra cultura della libertà femminile, inammissibile, e quella ufficiale, che domina. Se le donne sono ancora rappresentate come trofei e come simboli senza volontà è fallimento. Una sconfitta della democrazia, fatta di falsi tentativi fin qui per includere le donne a pieno titolo nelle società . E la prova sta nel persistere di un sistema, quello “che vorrebbe integrare civilizzare”, che ha come unità di misura immagini femminili simboliche e alternativamente da santificare, prostituire, dileggiare fino alla morte per eroismo o per giusta punizione.
L’integrazione è una parola strana che può anche nascondere nuovi patti, e che ha bisogno di mostrare illusorie differenze.
Cristina accoltellata a Rho il 30 luglio è morta proprio come Sanaa. Anche se gli uomini che le hanno uccise si credono differenti.
Non c’è altra scelta contro la barbarie, per le donne e per tutti, che sgombrare il campo da ogni ipocrisia e dalle soluzioni troppo facili, cioè quelle troppo lontane. Non c’è scelta, perché le donne non sono rose, ma carne e sangue che trasmette vita, della quale devono poter decidere la qualità. Fuori dalla clandestinità.
Proprio chi invoca la cultura deve sapere che è fatta di leggi, parole e messaggi visivi.
Cambiare non è facile, ma per cominciare bisogna farlo: magari dal provare vergogna per ciò di cui oggi ci si fa vanto.
Si dovrebbe fare subito, dimostrandolo coi fatti: magari restituendo aumentate le risorse tolte alle reti antiviolenza, magari facendo una legge organica di contrasto alle violenze sessuate, magari riconoscendo dignità ai luoghi politici autonomi delle donne.
Le cose stanno come vediamo, e chi ha fallito pensa anche di poterlo fare all’infinito, con in mano un megafono che gli fa sentire solo la sua voce e le sue parole inutili, che sottintendono la morte di Hina, Cristina, Sanaa , Grazia oggi come ieri.
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