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San Francisco a "strati"

San Francisco a "strati"

Diario di viaggio fra le "pieghe" del "sogno americano"

Mercoledi, 19/02/2014 - San Francisco gennaio 2014



Da sette giorni è diventata abitudine questa discesa verso l’acqua e scenografia fissa l’isola di Alcatraz, la “ROCCA” per turisti a caccia di déjà-vous rubati a film famosi o per nostalgici come me alla ricerca di tracce indiane.



Noi, popoli indigeni dell'America, reclamiamo la terra conosciuta come Alcatraz in nome di tutti gli Indiani d'America ...

Crediamo che questa richiesta sia giusta e adeguata e che questa terra dovrebbe esserci riconosciuta finché i fiumi scorrono e il sole splende .

Firmato, Indians of All Tribes. San Francisco, 20 novembre 1969



L’occupazione dell’isola da parte di pochi nativi americani che hanno tenuto l’appostamento per un anno e mezzo ha lasciato poche tracce, qualche scritta, qualche poster, niente di più. Ma forse non è cosa di cui i governi americani vanno fieri. Gli occupanti avevano proposto di utilizzare Alcatraz come centro culturale indiano. L'occupazione colpisce nel segno la nazione già provata dalle proteste per i diritti civili e degli studenti e contro la guerra in Vietnam e si accorge per la prima volta della disastrosa situazione degli Indiani d'America. Nel 1969 quasi il 40% dei circa 800.000 indiani è disoccupato, il 70% vive nelle bidonville e il salario annuo medio di una famiglia indiana è di circa 1.500 dollari, cioè un quarto della media nazionale. Le condizioni di vita degli Indiani d'America determinano anche la bassa aspettativa di vita di soli 46 anni, un terzo in meno rispetto alla media statunitense di 71 anni. Agli occhi degli attuali visitatori a pagamento viene offerto altro da fotografare: le celle, il locale mensa, gli spazi aria, le case delle famiglie delle guardie, il ranger che funge da guida…e qualcuno forse riesce ad immaginare cosa volesse dire essere recluso in quello spazio terribile. Sarebbe molto più imbarazzante se qualcuno provasse ad immaginare la scelta di quegli uomini e donne che volontariamente si sono imprigionati su un “isola isolata dalla civilizzazione moderna, con un'infrastruttura sanitaria insufficiente, senza alcuna risorsa naturale, senza industria e quindi con un alto tasso di disoccupazione, senza alcuna struttura adatta alla prevenzione sanitaria, senza scuole e con un terreno talmente povero da non riuscire a nutrire neanche un po' di selvaggina”. Qualcuno di noi forse ricorda e per la prima volta capisce una frase della canzone America primo amore di Mauro Lusini del 1970: America america di Buffalo Bill amico di indiani apache e cheyenne, nei pascoli verdi son nate città ma chi sta morendo laggiù ad Alcatraz… a me è successo.

Mi siedo su una panchina, tra me e Alcatraz una striscia di mare dove alcune barche accompagnano una ventina di nuotarori temerari. La panchina è l’unica asciutta in questa mattina di gennaio, segno che nella notte precedente è stata utilizzata come letto da uno dei 16000 senzatetto che popolano la città. Guardo il mare e respiro. Mi sembra di stare bene, perché le paure quotidiane diventano piccole cose di fronte a drammi grandi.



Ci sono diversi modi di camminare San Francisco:

Primo: col naso all’insù…

Il cielo estremamente mutante offre nuvole e stagioni differenti nello spazio di un giorno, il vestirsi a cipolla è quasi d’ obbligo se non si vuole sudare o tremare dal freddo.

Guardando in alto, appena sotto le nuvole ci sono i punti di riferimento che ognuno può memorizzare. La mappa non stradale che permette di non perdersi mai, perché in qualsiasi punto una cima che tocca il cielo indica il luogo che si sta cercando. La viabilità quadrata fa il resto. Per la prima volta nella mia vita riesco a non perdermi.

Il sole adesso scalda il mio orecchio destro e asciuga la coperta grigia solitaria sulla panchina alla mia sinistra. Piccole onde color porto svelano il passaggio di una nave accelerando la loro danza.

Uccelli di cui non conosco la specie nuotano tranquilli. I leoni marini dormono pigramente sulle banchine, ammassati come migranti su un barcone. Fra un po’ qualcuno di loro inizierà il canto, quasi un abbaiare ritmico, che forse racconta il perché appena dopo il terremoto del 1989 hanno scelto di traslocare in luoghi appartenenti all’uomo e anche perché negli scorsi anni per un po’ sono spariti, accendendo nei pensieri degli abitanti locali paure di premonizioni.

Ci sono rumori fissi in questa città: le voci umane che ogni tanto sormontano il brusio del traffico, la sirena dei pompieri che spesso corre lungo i viali, il verso dei gabbiani che riportano il mare anche fra i grattacieli delle banche, (sui cui ingressi spicca spesso il cartello “chiuso”), il canto dei leoni marini e il brusio dei tram a cavo che fa tremare le strade salendo con le sue vibrazioni anche su per le gambe e non si da tregua nemmeno quando il tram non è visibile, come uno sciame dì api in perpetuo lavoro.

Poi ci sono silenzi e stanno vicino ai corpi dei “dannati”, interrotti a volte da uno scoppio di rabbia o di follia o di disperazione. Un homeless mi è passato davanti, ha incrociato il mio sguardo, mi ha sorriso, (almeno così mi è sembrato) ed ha continuato la sua ricerca nei cassonetti. In questo punto del molo sono di legno, fatti a botte. Un gabbiano sta appostato appena più in là, come fosse pronto a una volata per strappare il boccone a chi lo raccoglie.



Questo è il secondo modo di guardare la città. Dall’altezza dell’ombelico in giù. Lì arrivano i bidoni dei rifiuti, lì frugano le mani nude di migliaia di uomini e donne di ogni età, lì inevitabilmente i miei pensieri si soffermano da una settimana. Anche parecchi cinesi frugano, però indossano guanti e raccolgono solo materiale riciclabile.

Un ragazzo dell’età di mio figlio beve l’ultimo sorso di un caffè di qualcun altro e poi passa le dita sul fondo del bicchiere di carta per raccogliere lo zucchero. Un uomo che spinge un carrello da supermercato pieno di tanti sacchi neri porta un libro a una donna seduta su un muretto, anche lei con un carrello di supermercato pieno di sacchi neri , con la variante di un cuscino arancio. Sul carrello dell’uomo un cagnolino piccolo, di quelli che spesso vediamo a guinzaglio imbacuccati in un cappottino ultima moda. Appena vede la donna salta dal carrello e l’uomo deve liberarlo per evitare che si strozzi. Corre attraversando la strada senza curarsi del traffico e la raggiunge per saltarle in braccio e riempirla di leccate. “Normalità” eppure mi stupiscono perché di differente c’è la condizione di vita dei due umani che quel cane ha come padroni. Quando l’uomo raggiunge la donna le consegna un libro. A sera ripassando di lì troverò la donna intenta a leggere le ultime pagine di quella storia. Anche questa una “normalità” che mi stupisce. Da quel momento ho notato che spesso vicino ad un corpo che dorme arrotolato in coperte e plastica giace un libro e mi sono sentita in colpa per aver pensato a una cosa strana, come se l’essere homless fosse sinonimo di essere differenti. “Leggi, mangia, dormi e provoca” sta scritto in un poster esposto a City Light la libreria di Lawrence Ferlinghetti. Almeno la prima azione la può compiere anche un senzatetto senza doversi umiliare.

Ovunque ad altezza ginocchio si incontrano bagagli improbabili, povere e strane cose ammucchiate e protette da teli neri, cartelli di cartone con richieste di aiuto e un po’ più in giù, dove le mie scarpe vanno, ammassi di coperte che racchiudono perle senza più valore sociale e senza voce. Derubate da una società sbagliata, private del necessario sprecato da altri. Il silenzio di tante persone quante ne abitano in un paese come quello in cui vivo, moltiplicate per due. SEDICIMILA ed è ancora una stima approssimativa.

So che non è una piaga di questa città soltanto. Qui io ci ho sbattuto contro perché San Francisco è sincera e non nasconde nulla, nel bene e nel male, ma in tutte le grandi metropoli e non solo esiste un identico strato di umanità negata, anche se per arginarne “il fastidio” che possono dare a chi preferisce non vedere in altri stati come in Florida si fanno leggi che vietano ai barboni di utilizzare le panchine pubbliche, e si sbattono in prigione persone colpevoli di essersi sedute su qualcosa che appartiene a una comunità. E questa sarebbe l’America dei diritti uguali per tutti? La grande potenza che fa guerre a casa degli altri sventolando valori e che a casa propria lascia morire di fame e stenti i propri figli, non li cura se non hanno i soldi per pagarsi l’assicurazione… di nuovo penso ad America primo amore che diceva …America america ma che mamma sei , ti sei innamorata di quattro marines e gli altri tuoi figli li hai già persi ormai son figli dei fiori e non figli tuoi. Ma quel movimento colorato si è spento in fretta…adesso Mauro Lusini canterebbe così---e gli altri tuoi figli li hai già persi ormai, ti chiedono aiuto e tu non lo dai…

E ancora si spendono soldi per esigenze di potere, ancora si combattono guerre per mantenere industrie belliche, ancora si lascia che sia sopravvivenza l’esistenza di tanti.

Questo inevitabilmente mi riempie di rabbia, di impotenza, di pena.



Terzo modo di visitare la città è quello dei turisti voraci, su e giù per autobus a due piani con guide internazionali, dentro e fuori da musei e negozi a caccia di souvenir, tutto ad altezza occhi. Molto spesso una foto coglie di più di tutti gli sguardi superficiali e veloci e mi chiedo se riguardandola a casa chi l’ha scattata si accorgerà delle immagini nascoste. Un fine settimana per visitare tutto, una settimana per credere di conoscere la città. E ognuno riporta a casa un pezzetto della sua verità. Magari non tornerà più e quella “verità” sarà l’unica in cui credere. Questo terzo modo l’ho destinato alla caccia ai murales di Diego Rivera, a un romantico tramonto sul Golden Bridge Gate, che sarebbe stato meglio in compagnia, alla visita al parco delle sequoie giganti, a qualche regalino comprato a Pier 39, il centro commerciale sul molo. (comunque tutto sistematicamente made in Corea, Cambogia, Vietnam, China). Una cosa che mi ha stupito che anche le verdure utilizzate a China Town (che accoglie una comunità di 10.000 cinesi) provengono dalla Cina, tra viaggio e imballo devono veramente essere gratuite all’origine per permettere al dettaglio prezzi più bassi di quelli californiani. La cosa che mi è piaciuta di più di una cultura “altra” è che ovunque si trovano alcuni di loro praticano il Thai Chi. Quindi può capitare di vedere gruppetti di persone (spesso anziane) nei parchi accompagnati da una musica, oppure singolarmente e senza colonna sonora alla fermata dell’autobus o durante una coda, che ballano una armonica danza lenta.



San Francisco si fa amare e questo è il quarto modo di visitarla, quello che credo di aver fatto mio. E dentro ci infilo i miei 13 anni, l’incontro con Ferlinghetti dopo 44 anni dal suo primo messaggio che mi ha fatto continuare la poesia, quello in cui dichiarava a una rivista italiana che era ora per i poeti di smetterla di guardare al proprio ombelico per incominciare a raccontare la strada. Ci infilo i murales di Haight street e la strana sensazione provata nel pensare che dove i miei piedi camminavano anche quelli di Jim Morrison, Janis Joplin e Jimy Hendrix erano passati. Il mondo Hippie diverso dal mondo Beat, un’altra generazione altri sogni altre utopie, ma non importa in Europa le due cose erano parallele nell’immaginario di un adolescente degli anni 70. Cioè nel mio.

Per questo non me ne vogliano i poeti come Jack che hanno scelto di prendere le distanze da una Beat generation diventata ora solo business e da un mondo hippie che ha perso dentro gli sballi la voglia di lottare. Ho adorato incontrarlo ogni giorno per un caffè alle 11,30, ho bevuto le sue parole come una spugna e mi sono ricaricata di voglia di valori, di voglia di credere, di voglia di provarci.

Certo che incontrare persone che a più di 80 anni ancora credono nell’uguaglianza, nella pace e nell’amore è la cosa più bella che poteva succedermi qui. Come mettere il cervello in una presa e staccare la spina solo dopo aver fatto il pieno. Inconsciamente è quello che speravo di trovare. Una conferma. Quella di non aver sbagliato scelte di vita negli ultimi quattro decenni. E torno a casa con una lista di nomi, altre mosche bianche che ancora hanno voglia di credere…ma le squadre si possono fare anche con pensieri “diversi” di umanità e giustizia e valori e magari invece di sentirsi mosche bianche ci si sente sullo stesso carro verso qualcosa.

Quindi: felice di essere un poeta di strada in buona compagnia e di aver visitato una strana città accogliendo indignazione e amore. Che poi sono la stessa cosa perché solo se ami puoi indignarti di fronte alle ingiustizie sociali che vogliono farci credere essere “normalità”.



Antonella

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