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Salute riproduttiva, praticamente un tabù

Salute riproduttiva, praticamente un tabù

Obiettori. Di coscienza?/2 - In un grande ospedale romano il reparto delle interruzioni volontarie di gravidanza ha organizzato anche un ambulatorio per la contraccezione. Conversazione con la ginecologa Giovanna Scassellati

Bartolini Tiziana Martedi, 10/04/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2012

“In Italia si parla tanto di famiglia, ma la contraccezione è ancora un tabù, nelle scuole non si fa educazione sessuale e infatti siamo l’ultimo Paese europeo, dopo noi c’è la Grecia, per uso di contraccettivi. Sulla pillola anticoncezionale ci sono ancora tanti pregiudizi”. Giovanna Scassellati è ginecologa al San Camillo, uno dei grandi ospedali della Capitale, è responsabile di un modulo dipartimentale per la legge 194, centro di riferimento regionale, e dal 1997 dirige il centro regionale per le mutilazioni genitali. “Ci sarebbe bisogno di una politica sulla contraccezione e di family planning, così come dell’agenda di gravidanza attivata in alcune regioni (con le ostetriche figure di riferimento per le gravidanze fisiologiche) e tutto programmato. Invece le donne nel Lazio sono abbandonate a loro stesse e la maggior parte si rivolge ai ginecologi privati, in questo modo le donne delegano mentre devono riprendersi il controllo del loro corpo e della gravidanza”. È incredibile, ma la strutturazione della sanità in una regione che per l’aborto con la RU486 obbliga al ricovero, nonostante non sia necessario e nonostante un deficit enorme abbia imposto tagli drastici al servizio sanitario, non prevede alcuna attenzione particolare per le donne che vogliono avere figli. Invece sono tanti gli ostacoli per le donne che decidono di interrompere la gravidanza. A partire dalla disponibilità di presidi ospedalieri per arrivare all’alto numero di medici obiettori di coscienza. Anni fa i ginecologi al San Camillo erano 30 e 2 primari, dopo i tagli e i pensionamenti ne sono rimasti 21 strutturati nella maternità, di cui solo 3 non obiettori. Gli altri 18, primario compreso, sono obiettori di coscienza. “Ho scelto di non essere obiettrice perché sono una donna e ho lottato per avere l’aborto legale in Italia e la mia collaborazione con Simonetta Tosi, Angela Spinelli e Serena Donati è stata importante per fare il nostro lavoro con un approccio scientifico e all’interno del sistema sanitario pubblico. Quando 10 anni fa ho ricevuto l’incarico di dirigere la 194 ho ereditato un reparto dove si facevano solo aborti e ho strutturato un lavoro sulla salute riproduttiva facendo un ambulatorio di contraccezione, stimolando i colleghi ad andare ai congressi, collegandoci alla federazione internazionale. Questo ci ha aiutato moltissimo a superare l’isolamento in cui in Italia operano i medici che operano sulla salute riproduttiva. Lavorare in team ci aiuta molto, anche valorizzando le infermiere e le mediatrici culturali; ogni due settimane si fa la riunione del reparto e si discute su come fronteggiare le situazioni, siamo intercambiabili e questo evita la ripetitività del lavoro e giova alla funzionalità del reparto”. Tornando agli obiettori di coscienza, se abbiamo capito bene solo 3 ginecologi sono non obiettori al San Camillo, come mai? “Alcuni sono stati assunti con la 194 e poi, una volta stabilizzati, hanno messo l’obiezione. Oggi siamo in 3 perché i 2 colleghi hanno un contratto a termine (tra l’altro sono più di 10 anni che lavorano senza tranquillità) legato alla 194. Il modo per avere la certezza che non mettano l’obiezione una volta assunti, cosa che auguro loro di cuore, è che nel contratto definitivo sia prevista una clausola precisa a questo proposito”. Ma qual è la situazione negli altri ospedali della regione? “La percentuali di obiettori di coscienza è altissima, tra l’altro sono gli stessi che fanno le diagnosi prenatale o l’ecografia morfologica e poi, di fronte alla necessità di un aborto terapeutico, abbandonano le donne al loro destino e spesso anche oltre i termini delle 21 o 22 settimane. Se hanno disponibilità economica quelle donne vanno all’estero, ma in questo modo a tutte è negato un diritto previsto dalla legge. I primari nel Lazio sono tutti obiettori, e da quello che so la situazione è la stessa in tutta Italia”. Perché, secondo lei? “Non saprei dire, non è previsto da alcuna legge. Certo non è un caso, è come se fosse una condizione per fare carriera, anche nelle struttura pubbliche”. Il trentennale percorso professionale della dottoressa Scassellati è maturato all’insegna di un’idea: stabilire un dialogo con le donne e con le loro sofferenze e problematiche. “Ero interessata al parto naturale nella struttura pubblica e nel 1997 al San Camillo c’era la vasca, purtroppo l’esperienza è durata un anno facendo 350 parti in acqua”. Perché un’esperienza positiva, voluta dalle donne, è stata smantellata? “Vari ginecologi non erano interessati a consolidarla e furono ignorate le battaglie del coordinamento romano di associazioni che all’epoca lavoravano sul parto”. È stata una battaglia persa dalle donne, dunque… “La discesa non si è mai più arrestata. Oggi alle giovani manca l’autodeterminazione, conoscono poco il loro corpo e non hanno nessuno che spieghi loro le cose. Da noi arrivano tante minorenni e negli anni vediamo scendere l’età. A differenza dal passato ora arrivano accompagnate dai genitori, che però sono attoniti, sorpresi di quanto sta accadendo alla loro figlia. Questo è il risultato della mancanza totale di una attenzione alla riproduzione e alla salute riproduttiva”. In questi decenni, che altro è cambiato nel reparto? “La novità più significativa sono le donne immigrate, con tutte le diversità dovute alle varie provenienze. Con loro è importante stabilire un dialogo, ma è decisiva la presenza dei mediatori culturali. Se la contraccezione è spiegata da chi riesce a stabilire un feeling, loro poi sono attente e difficilmente tornano ad aver bisogno dell’IVG”. Le descrizioni che fa la dottoressa Scassellati del suo lavoro in un reparto dedicato all’interruzione volontaria della gravidanza, in applicazione della legge 194, è molto diversa da un freddo ‘abortificio’. “Al San Camillo nel 2011 sono stati seguiti 3640 parti, 2098 IVG, 158 aborti terapeutici e 294 aborti farmacologici con RU486. Ma il nostro non è un lavoro che si può fare come una routine, c’è sempre la necessità di mettersi in discussione per riuscire a parlare con le donne che arrivano, spesso cariche di sofferenze. Io mi sono aiutata molto andando all’estero, studiando e confrontandomi con colleghi di altri Paesi, che affrontano i nostri stessi problemi dal punto di vista scientifico, mentre da noi continua a prevalere un approccio etico. Il problema della ginecologia e dell’ostetricia in Italia c’è a partire dall’Università, dove l’aborto (spontaneo o no), che pure è una realtà che riguarda il 40% delle gravidanze, è percepito come una branca sporca, di cui non si parla”. Bene, almeno la formazione il nostro sistema sanitario gliela garantisce… “No, a questo tipo di convegni vado a spese mie”.

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