Sakine, che ha lottato tutta la vita. Per la libertà
Kurdistan Turco - Uscito in edizione italiana il secondo volume dell’autobiografia di Sakine Cansiz. Fondatrice del Pkk, imprigionata e torturata per dieci anni, muore in un attentato
Emanuela Irace Lunedi, 21/03/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2016
Simbolo della resistenza e della battaglia per l’emancipazione femminile, Sakine Cansiz è l’icona dell’anima collettiva e rivoluzionaria del movimento di liberazione curdo. Nome in codice Sara. Combattente e guerrigliera fin dagli anni Settanta, è una delle due donne co-fondatrici del Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan, formazione tutt’oggi nella lista nera dei movimenti terroristi, secondo i desiderata di Turchia, Usa e Ue.
Nonostante le richieste provenienti da più parti di considerare il Pkk legittima forza di resistenza ed emblema di lotta contro le persecuzioni a base etnica. E nonostante la guerra condotta con successo contro le milizie jihadiste del Daesh in Siria e Iraq, o forse proprio per questo. Sakine nasce nel 1958 a Tunceli, nella Turchia centro-orientale da una famiglia tradizionale di religione sciita che non condivide le sue scelte politiche, al punto che, giovanissima, fugge ad Ankara dove incontra il leader curdo Abdullah Öcalan. È l’inizio della svolta. Consapevole che nessun movimento rivoluzionario può prescindere dalle donne, Sakine Cansiz partecipa attivamente alla battaglia per la liberazione dei territori curdi violentemente assimilati dalla Turchia.
Nel 1979 viene arrestata e per dieci anni resiste alle torture nelle carceri turche. Tutta la sua vita coincide con la storia del movimento di liberazione curdo. Dal periodo in cui questo si andava formando fino al momento cruciale in cui la sua esistenza si spezza sotto il fuoco di una scarica di proiettili assassini: omicidio politico.
Sakine Cansuz muore a Parigi il 9 gennaio 2013 insieme alle compagne Fidan Dogan e Leyla Saylmez. L’esecuzione avviene nel decimo arrondissement, negli uffici del Centro di informazione del Kurdistan dove le tre donne vivevano e lavoravano. Un atto ignobile, a pochi giorni dall’annuncio dell’apertura di negoziati tra Ankara e Abdullah Öcalan. Una esecuzione che sembra portare la firma del Mit, il potente servizio segreto turco. Non è un mistero che su Sakine si concentrasse l’attenzione del Governo.
La notizia del triplice assassinio fa il giro del mondo e nel cordoglio generale il ritratto che ne fa la parlamentare Sebahat Tuncel (intervistata da NOIDONNE proprio nel 2013) ben si adatta alla forza del carattere di un personaggio dai tratti decisamente epici: “Sakine è stata un esempio formidabile per tutte noi, siamo cresciute sentendo parlare di lei e di come riusciva a sopportare la tortura del carcere reagendo contro i propri aguzzini e sputando loro in faccia, senza mai piegarsi nè arrendersi alle violenze. La sua battaglia è sempre stata duplice: contro il feudalesimo del dominio maschile e a favore dei diritti negati al popolo curdo”.
Femminista e guerrigliera, leader politica e scrittrice con un proprio punto di vista e una elaborazione di genere anche sulla guerra, Sakine lascia il proprio testamento politico nella corposa autobiografia iniziata nel 1996. “È probabilmente il primo libro che descrive il movimento di liberazione visto da una donna”, si legge nella prefazione al secondo volume di “Tutta la mia vita è stata una lotta” uscito a gennaio in traduzione italiana, per l’edizione Mezopotamien Verlag a cura di UIKI Onlus – Ufficio di Informazione del Kurdistan. Un testo da cui emerge l’analisi lucida della persecuzione subita dal suo popolo accanto al racconto quotidiano, ai limiti dell’umana sopportazione, del sistema carcerario turco.
All’introspezione psicologica e alla descrizione dei caratteri, Sakine unisce la ricerca di metodo. Un libro che squarcia il velo del silenzio e del compromesso di chi per convenienza politica preferisce non vedere, dimenticando i principi minimi di legalità riconosciuti a livello internazionale.
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