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RU486: una pillola che alla Calabria proprio non va giù

RU486: una pillola che alla Calabria proprio non va giù

La pillola abortiva nella regione Calabria e la storia di un piccolo-grande boicottaggio, che parte dal Governo, passando per la Regione fino agli ospedali calabresi e al personale medico e paramedico. E sono le donne a pagare, come al solito, il prezzo

Mercoledi, 07/12/2011 - di Doriana Righini,



(È tempo di fare domande, ma questa volta non a se stesse.)



Dopo un improponibile dibattito durato un’eternità, dal primo aprile 2010 le farmacie ospedaliere italiane hanno potuto dare avvio ufficialmente alle procedure per richiedere e distribuire la pillola abortiva Ru486, in uso in Francia dal 1988 ed in quasi tutta Europa da anni, ad eccezione dei paesi nei quali l’aborto è vietato. In Italia abbiamo assistito ad un vero e proprio veto da inquisizione medievale, per vent’anni. La scelta del via libera del Governo, infatti, non è stata dettata dalla volontà di compiere un gesto di civiltà ma è avvenuta unicamente perché un ulteriore ritardo avrebbe comportato la definitiva violazione della direttiva europea sul Mutuo riconoscimento dei farmaci.



La Ru486 non è altro che un progresso della scienza, che serve esclusivamente ad ottenere lo stesso risultato che si ottiene con un aborto chirurgico, ma che è procedura medica meno invasiva di quella tradizionale, è applicabile a epoche gestazionali precoci, e dovrebbe evitare le complicanze ed i pericoli dell’ intervento chirurgico e dell’anestesia. In linea teorica dovrebbe essere un vantaggio anche per la Sanità: eliminando l’intervento chirurgico, le sale operatorie, il personale medico e paramedico, potrebbero essere impiegati per altre funzioni.



In una parola, la RU486 è una svolta per la salute delle donne. Una svolta della quale in Calabria, come altrove, non ci siamo nemmeno accorte. Ad un anno e mezzo dal via libera del Ministero, infatti, pare evidente dai dati statistici riguardanti il suo utilizzo, che la pillola abortiva non è minimamente vicina ad un regime di uso, nella nostra regione.



Com’è possibile? Qual è la catena delle eventuali inadempienze? Sono originate da strategie politiche o da vizi strutturali dei meccanismi burocratici nostrani che si giocano sui corpi e sulle vite delle donne e che confermano il corpo delle donne come luogo biopolitico per eccellenza?



Come mai, in Calabria, non c’è quasi traccia della RU486? Di chi è la responsabilità? Di Governo? Regione? Ospedali e strutture sanitarie pubbliche? Personale medico? Oppure si tratta forse di un circolo ben poco virtuoso e di responsabilità condivise?



UN CIRCOLO POCO VIRTUOSO



(il Governo)

Le linee guida ministeriali sulla somministrazione del farmaco prevedono il ricovero in ospedale di tre giorni per le donne che scelgono l’aborto farmacologico, mentre l’aborto chirurgico si pratica in day hospital. Questo non è niente altro che un ipocrita proposito con cui si finge di preoccuparsi della salute della donna e che si traduce in un chiaro tentativo di boicottare l’utilizzo della RU486. Esiste, infatti, il problema oggettivo della scarsità dei posti letto negli ospedali pubblici, con la spesa che la degenza comporta per la Sanità, ed il pesante freno psicologico che la prospettiva di un lungo ricovero rappresenta per le donne, che in molti casi per tutelare la propria privacy opterebbero per il day hospital. A tutto ciò si aggiungono le modalità della ex sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella che, prima, si è lanciata in affermazioni disinvolte circa la possibilità che le Regioni potessero rallentare l’arrivo nel prontuario regionale della pillola abortiva e poi, sempre in maniera disinvolta, ha ammonito e minacciato di sanzionare le Regioni che avessero applicato protocolli clinici che ammettono le dimissioni volontarie delle donne dopo l’assunzione della prima pillola. Esiste, infatti, la possibilità che, rispetto alle Linee Guida ministeriali, le Regioni agiscano con un buon margine di autonomia e con possibili differenze nella tempistica delle somministrazioni, come avviene in alcune regioni dove vige il day hospital, salvo complicazioni.



L’operazione chirurgica diventa così, secondo alcuni, la “giusta” nemesi per le donne che se proprio per Legge possono scegliere di abortire, quantomeno lo devono fare sotto ai ferri, secondo un ragionamento errato e carico di crudeltà che vede nella RU486 un elemento che renderebbe l’aborto eticamente più lieve, che finirebbe per banalizzarlo e che, quindi, va caricato quanto più possibile di drammaticità e sofferenza. Sempre sulla falsa riga della considerazione che le donne sono una sorta di minus habens incapaci di operare scelte consapevoli e secondo coscienza.



(La Regione)

Con sei mesi di ritardo, e con il Parlamento più vuoto del solito, il 4 agosto scorso è stata presentata la Relazione del Ministro della Salute sulla attuazione della Legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (Legge 194/78) . Nelle poche righe dedicate alla RU486, si legge che il Ministero della Salute ha avviato il monitoraggio dell’utilizzo della pillola abortiva attraverso un apposito questionario trimestrale ma che i dati raccolti per il 2010 saranno disponibili solamente nel 2012, cosa che rappresenta un grave e mal giustificato ritardo. Il Ministero segnala anche che:



“Tutte le Regioni hanno inviato il dato da cui risulta che questa metodica è stata usata nel 2010 in 3775 casi (3.3% del totale delle IVG preliminarmente fornito dalle Regioni per il 2010). L’uso è avvenuto in tutte le regioni tranne Abruzzo, Calabria e Sardegna. Il dettaglio di questo monitoraggio sarà illustrato entro l’anno in un apposito documento, che sarà presentato alle commissioni parlamentari competenti.”



Vuoi vedere – mi sono chiesta- che almeno una promessa, espressa più volte e con forza in campagna elettorale, Scopelliti è riuscito a mantenerla?



I primi di aprile 2010 infatti, tramite interviste e comunicati, il neo Governatore della Calabria ribadiva un atteggiamento di totale chiusura nei confronti della pillola abortiva, indicando come ipotesi unica, eventuale ed estrema, quella della somministrazione della RU486 in ospedale attraverso il ricovero prolungato, la cui praticabilità veniva ritenuta ancora da verificare. Il tutto perfettamente in linea con quei tormentoni, quelle forme quasi ossessive sulla Legge 194 che denotano un’arretratezza culturale dalla quale fatichiamo a liberarci, in Calabria come in Italia.



Non rassegnata ad ignorare, cerco qualche risposta alle mie domande contattando Cittadinanza Attiva, che mi fornisce in tempi rapidi alcune conferme riguardanti il territorio di Catanzaro, e sul sito della Regione Calabria, dove l’unica informazione utile a questo proposito è il numero telefonico del Dipartimento “Tutela della Salute e Politiche Sanitarie”. Dopo qualche tentativo andato a vuoto e vari dirottamenti su altre linee telefoniche, finalmente riesco a parlare con una persona che, con professionalità e gentilezza, è pronta a darmi una serie di chiarimenti, ai sensi della Legge n. 241/1990. Mi viene spiegato innanzitutto che la Regione, come era prevedibile, ha recepito le Linee Guida ministeriali e le ha fatte sue, inoltrandole alle strutture sanitarie e adempiendo così ad una parte delle proprie responsabilità.



(Gli Ospedali, il personale medico e paramedico)



Scopro anche che se nel 2010, in Calabria, la RU486 non è stata utilizzata da nessuna donna, nel 2011 al 30 settembre, data la rilevazione trimestrale, le interruzioni volontarie di gravidanza con RU 486 sono state in totale 28 di cui 15 presso l’Azienda Ospedaliera di Reggio Calabria e 13 presso il Presidio Ospedaliero di Lamezia Terme (il valore assoluto di IVG nel 2010, in Calabria, è di 3058).



Come mai in tutto il territorio regionale solamente in due ospedali, uno dei quali quello di Reggio per buona pace di Scopelliti, viene somministrata la pillola abortiva ? Possibile che questa situazione dipenda dalla mancanza di posti letto nei reparti o dalla volontà stessa delle donne? Ma prima ancora: La RU486 è stata richiesta dai reparti ospedalieri alle unità operative di farmacia?



Una prima risposta viene fornita dall’Azienda Ospedaliera Pugliese-Ciaccio di Catanzaro dove, ad oggi, la pillola abortiva non è presente nel prontuario aziendale perché non è stata richiesta, all’unità operativa farmacologica dai reparti di ginecologia-ostetricia né dell’Ospedale, né dell’Università . Cosa viene risposto alle donne che ne fanno richiesta? Qual è la ragione di questa mancanza? Si presume, l’obiezione di coscienza.



Sappiamo che in Calabria più del 73% dei ginecologi del servizio pubblico è obiettore. Nell’ospedale Pugliese-Ciaccio di Catanzaro, ad esempio, sul numero complessivo del personale del reparto di ginecologia-ostetricia, solamente due medici non sono obiettori . Come viene tutelata la salute e la libertà di scelta delle donne? Tenuto conto che la Legge prevede l’interruzione volontaria di gravidanza e la cosiddetta obiezione di coscienza, viene presa in considerazione, dalle strutture sanitarie pubbliche, la necessità di bilanciare il diritto all’obiezione di coscienza con la responsabilità professionale e con il diritto di ogni paziente ad accedere tempestivamente a legittime cure mediche? Pare proprio di no. Figurarsi, poi, se ci si preoccupa di assicurare alle donne la possibilità di scegliere come abortire. Potrebbe anche verificarsi l’eventualità che, da parte dei pochissimi medici non obiettori, manchi la volontà di uscire da “routine” consolidate e di avventurarsi in nuove prassi mediche, da svolgere in ambienti lavorativi a volte ostili o contro la volontà del primario stesso.



Cosa spinge, in un così alto numero, il personale medico e paramedico all’obiezione? E’ davvero solamente una questione di credo religioso o di convinzione “etica”? C’è un gap nel tempo che intercorre tra le assunzioni mirate degli anni ottanta per l’applicazione della 194/78 e l’obiezione massiva di oggi, che sta culminando con la prospettiva concreta dell’impossibilità, tra soli cinque anni in Italia, di praticare IVG in strutture sanitarie pubbliche e del conseguente ritorno alle mammane o dei viaggi all’estero, per chi se lo potrà permettere. E’ mancata, e manca tutt’ora, una seria riflessione da parte della politica rispetto al diritto di cittadinanza e di autodeterminazione delle donne, continuamente messo in discussione, manca una reale attenzione verso la prevenzione e l’educazione alla procreazione responsabile, alle condizioni lavorative del personale medico e paramedico non obiettore penalizzato nei carichi di lavoro e confinato in termini di carriera.



Siamo in balia di un sistema malato. A partire dalla politica, che nella migliore delle ipotesi si fa scudo con un distacco ipocrita ed irresponsabile, per arrivare alla società civile tutta che, sempre nella migliore delle ipotesi, è poco sensibile alle problematiche di rilievo che riguardano direttamente le donne, ed in particolare il nostro diritto alla scelta di una maternità libera e responsabile.



Sia chiaro che c’è in ballo molto di più della salute delle donne, se pure questo argomento sia tutt’altro che irrilevante. Tutto si riconduce ad una questione millenaria.



“Lentamente compresi che in verità la dissacrazione delle donne rivelava il fallimento degli esseri umani nell’onorare e proteggere la vita; e questo fallimento, se non l’avessimo rettificato, avrebbe significato la fine di tutti noi. Si forza quanto è nato per essere aperto, fiducioso, caloroso, creativo e vivo a essere piegato, sterile, domato” (Eve Ensler).



(pubblicato su Scirocconews il 20/11/2011 e CalabriaOra del 22/11/2011)

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