Immigrazione, violenze e discriminazioni - A partire dai manifesti di AN in cui si sostiene che “l’immigrazione clandestina fa male alle donne", una riflessione sulla pericolosità per tutte le donne per la riproposizione di stereotipi
Barbara Spinelli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Agosto 2007
“L’immigrazione clandestina fa male alle donne. Nessuna solidarietà, senza legalità. L’Italia a chi la ama”. Non so perché, ma quando per la prima volta ho avuto modo di vedere questa nuova campagna pubblicitaria di AN “per sensibilizzare le istituzioni sul problema dell'immigrazione, della solidarietà e della legalità”, mi è subito tornato in mente lo spezzone di “Harry Potter e la camera dei segreti” in cui Hermione, a fronte della necessità cogente di fare la pozione polisucco, unico modo per cercare una via di uscita alla morte certa che toccherebbe ai mezzosangue qualora il trio non riuscisse a richiudere la camera dei segreti, esclama “Non possiamo fare la pozione polisucco! Potremmo rimanere uccisi… o peggio… potrebbero espellerci da Hogwarts!” e Ron, scambiandosi uno sguardo significativamente attonito con Harry, controbatte “Hermione, dovresti rivedere le tue priorità !!!”. Già, perché parlare di sconcerto è poco davanti al “ribaltamento delle priorità”, basato peraltro su una summa di stereotipi, che questa campagna pubblicitaria propone. In primis: L’immigrazione clandestina fa male alle donne. Perché mai operare una “scala gerarchica” che quantifichi il dolore di chi versa situazioni di clandestinità? Perché mai specificare che essa fa male, nello specifico, alle donne? E a quali donne ci si riferisce? Forse a quelle italiane, che si presume vittime di violenza gratuita da parte di immigrati favoriti nel commettere crimini dalla loro clandestinità? Ecco che il link tra donne – immigrazione – solidarietà - legalità appare in questa campagna pericolosamente disegnato. Questa campagna, così come la proposta di aprire una Commissione d'inchiesta sulle condizioni di vita delle donne immigrate presenti in Italia, parte da presupposti non condivisibili, pericolosamente forieri di odio sociale, perché riproducono uno stereotipo che si fatica ad abbattere anche ripetendo quotidianamente quello che le statistiche attestano e confermano: la maggior parte delle violenze sulle donne non è agita per strada da parte di immigrati clandestini, ma in casa, per mano di coniugi, amici, familiari, parenti.
Non si può ridurre il problema della violenza sulle donne solo a un problema di stupri su strada, e quindi di sicurezza, e tantomeno, sempre sulla base di questa distorta concezione di legalità, patriarcale e paternalistica, si può negare non solo l’accoglienza, ma anche la presenza stessa in Italia di clandestini (perché se “l’immigrazione clandestina fa male”…invece “L’Italia a chi la ama”..). Questo significherebbe non solo porre in essere politiche discriminatorie nei confronti dei migranti, ma anche promuovere politiche di genere “protezionistiche”, ed in quanto tali riproduttive di quegli stereotipi che nei secoli hanno voluto la donna oggetto di tutela / protezione / controllo e non soggetto autodeterminato la cui dignità, senza se e senza ma, sempre e comunque, va rispettata.
In un Paese come il nostro, dove il Comitato per l’applicazione della CEDAW sottolinea che “alcuni gruppi di donne, tra cui le ROM e le immigrate, si trovano costrette in una posizione vulnerabile ed emarginata, specialmente per quanto riguarda l’istruzione, l’impiego, la salute e la partecipazione alla vita pubblica e ai processi decisionali”, e richiede che vengano poste in essere “misure concrete per l’eliminazione della discriminazione contro quei gruppi di donne maggiormente vulnerabili, tra cui le rom e le immigrate” per promuovere “il rispetto nei riguardi dei loro diritti umani con tutti i mezzi disponibili, comprese misure speciali temporanee”, ebbene in un Paese dove la situazione è tale non si può e non si deve in alcun modo i negare solidarietà, appartenenza, presenza, a nessuno, perché significa discriminare, incitare all’odio razziale, fomentare conflitti civili, tanto più se ciò è fatto in nome di una concezione astratta e fortemente discutibile di legalità e amor patrio.
Mi pare infatti che in queste poche righe ci si arroghi con troppa facilità la facoltà di disegnare confini di giudizio e di accoglienza troppo stretti, troppo discriminanti, in un’interpretazione inaccettabilmente restrittiva e deviante dei principi costituzionali: si nega infatti un principio fondamentale del nostro ordinamento, quello espresso negli articoli 2 e 3 della Costituzione, il principio solidaristico, che la nostra Carta rivolge rivolto a vantaggio di tutti, cittadini e non, nell’ottica egualitaria ed inclusiva che Essa promuove.
E’ impensabile tentare di assoggettare una delle basilari garanzie di dignità previste dal nostro ordinamento a logiche securitarie o legalitarie: è piuttosto un dovere inderogabile di solidarietà politica, economica e sociale, richiesto a tutti, e rivolto a vantaggio di tutti, cittadini e non. Sono manifesti gli stereotipi alla base delle proposte politiche che si celano dietro queste poche righe, ed a me pare anche manifesta la pericolosità di veicolare al pubblico messaggi di questo tipo, non solo perché profondamente in contrasto con i principi che ispirano la nostra Costituzione, ma anche perché profondamente offensivi della dignità di tutte le donne, gli uomini, gay, lesbiche, bisessuali, transessuali, migranti, apolidi, cittadini, PERSONE, che rivendicano, in quanto esseri umani, il rispetto della propria dignità, che rivendicano “pari dignità sociale” aldilà delle loro condizioni personali e sociali. Ecco perché, rinnegando l’idea di una “cittadinanza a strati”, mi chiedo se non sia il caso che i promotori di questa campagna oltre a ritirare questa campagna discriminatoria, ripensino al loro approccio alle questioni di genere e dei rapporti con i migranti. Condividendo quanto affermato da Heidi Giuliani, ritengo non porti a nulla di costruttivo “un uso distorto del femminismo, in chiave etnocentrica e coloniale; una assurda etnicizzazione del crimine; un universalismo dei diritti umani usato in chiave razzista; una spinta a processi identitari contrari alle possibilità di un dialogo transculturale che permetta a ciascuno/a, migrante e nativa/o, di costruire nelle relazioni una propria individualità nuova e in movimento”.
Sarebbe piuttosto il tempo di abbandonare stereotipi razzisti e nazionalisti e capire invece come affondare le sfide del multiculturalismo: anche io come Habermas sempre più spesso mi interrogo sulla capacità dell’individuo postmoderno di rimpiazzare lo stadio nazionale della democrazia e della normatività repubblicana (Volkgenossen) – e quindi il richiamo ossessivo ad una legalità meramente formale- con uno stadio istituzionale cosmopolitico e sopranazionale (Weltinnenpolitik) che sia in grado di abbracciare al proprio interno il pluralismo (subpolitico e culturale) delle forme di vita e di equiparare giuridicamente identità etiche diverse, prendendo distanza dalla “cultura di maggioranza” e dal suo tentativo isterico di produrre individui “a una dimensione” sotto l’egida del falso mito del progresso “autopoietico” di diritti individuali universali .
Ciò è possibile secondo Habermas solo attraverso il diritto, che deve essere guidato da principi costituzionali universalistici, e deve sostituire il concetto di “giusto” al concetto di “bene”, in modo tale da scindere il concetto di cittadinanza da quello, comunque presente, di appartenenza del cittadino a un’identità collettiva di tipo subpolitico (etico, culturale o religioso), in modo tale da garantire una solidale coesistenza di estranei fondata sulla legalità universale e astratta del diritto positivo.
Dunque, per chi afferma “Nessuna solidarietà, senza legalità”, non è forse il caso di rivedere le proprie priorità?
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