Dopo il referendum - Si deve prendere atto che la richiesta dei quattro sì è piombata nella vita di milioni di cittadini inconsapevoli e distanti anni luce da gameti e cellule staminali
Bartolini Tiziana Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2005
La data del 12 e 13 giugno 2005 dovrebbe essere proclamata lutto nazionale. Una diserzione così massiccia delle urne non può essere percepita quale vittoria di una parte: il settentacinque per cento di italiani astensionisti pone quesiti, invoca molteplici ed approfondite letture ed interpretazioni. Non a caso lo stesso cardinale Ruini, sebbene felice per il risultato, si è ben guardato dal porre‘d’ufficio’ milioni di italiani sotto le sue insegne. Per questo i brindisi fatti in alcune sedi politiche e nelle stanze del Comitato Scienza & Vita sono apparsi eccessivi e fuori luogo. Gli astensionisti pensano forse di aver, loro, convinto le masse? Davvero pensano di aver orientato le opinioni e il sentire della stragrande maggioranza di un Paese proponendo immagini di bambini racchiusi dentro ad alambicchi o con slogan inneggianti alla vita? Non essendo possibile per nessuno definire il confine tra l’astensionismo fisiologico e quello consapevole, il loro indubbio e unico merito è stato quello di aver puntato sulla ‘pancia’ piuttosto che sulla ‘testa’. Hanno annusato l’aria e hanno vinto una partita truccata nelle premesse. Ad uscire in modo vittorioso dal referendum, certamente, è stata l’indifferenza e la paura, l’ignoranza e l’egoismo. Ma nessuno, lo speriamo sinceramente, può compiacersi di vivere in un Paese diffidente verso il nuovo e timoroso del futuro, in cui la difficoltà di confrontarsi con i problemi produce la negazione dei problemi stessi. Quel settantacinque per cento certifica un egoismo portato all’ennesima potenza, che non esita a ‘passare la mano’ quando la partita chiama in causa questioni che riguardano le generazioni future. Non vi sono dubbi sul fatto che i referendari, pur consapevoli della difficoltà della battaglia, abbiano dovuto accettare una cocente sconfitta e registrare una obiettiva distanza dal Paese. Ma a loro va attributo un merito: l’aver fatto emergere l’Italia vera con la quale ci si deve confrontare per discutere e decidere, nella condivisione e nel rispetto delle diverse matrici culturali, su temi strategici per il futuro della nostra democrazia. Materie come le nuove frontiere della scienza, l’Etica o le etiche, laicità dello Stato, la libertà della ricerca, le competenze della Chiesa, i rapporti con il cattolicesimo e con le altre religioni non potranno più essere argomenti di conversazione per pochi addetti ai lavori in circoli ristretti ed elitari. Se queste materie devono essere alla portata di tutti, fino al punto di divenire quesito referendario, allora bisogna avere il coraggio e la forza culturale di farle arrivare al Paese reale. Bisogna attrezzarsi, dal punto di vista politico e della struttura sociale. E la chiamata, nessuno escluso, deve arrivare ai partiti e al sistema dei media, al mondo dell’associazionismo e alla scuola. Prendiamo atto che la richiesta di quattro sì è piombata nella vita di milioni di cittadini - assai indaffarati ad arrivare alla fine del mese e a decidere se accendere un mutuo in mancanza di un lavoro certo - per lo più inconsapevoli e distanti anni luce da gameti, fecondazione eterologa e cellule staminali. Milioni di cittadini scaraventati di colpo da un mondo popolato di ‘reality-show’ e veline agli scenari di un futuro proposto come apocalittico o paradisiaco. A queste persone, prepotentemente e in poche settimane, si è chiesto di farsi un’opinione sul senso della vita e sull’etica riproduttiva. Un qualche disorientamento era comprensibile, anche se non giustificabile. A nulla è valso il richiamo ad esprimere la propria opinione nel campo della democrazia bioetica, l’argomento non era condiviso oppure – come si spera - non era compreso. Gli italiani non hanno messo in relazione le pillole, di cui sono grandi consumatori per ogni minimo segnale di malessere, alla ricerca scientifica e hanno deciso di non dire alla scienza di continuare a produrre quei farmaci usati quotidianamente senza parsimonia. Nei cervelli non è scattato questo elementare collegamento, così hanno avuto la meglio gli astensionisti sostenendo l’inadeguatezza della gente comune a decidere su questioni così importanti e complesse. Argomento oltremodo offensivo, che da solo avrebbe dovuto far scattare reazioni contrarie. Le sconfitte sono state le donne. Tutte quelle che si sono impegnate, nella profonda convinzione che di nuovo sul loro corpo il potere giocava una partita crudele e violenta. Le donne non hanno raggiunto la metà di quel settantacinque per cento, non sono riuscite a parlare alle altre donne. Non hanno trovato la chiave di accesso ai loro cuori e alle menti. Non sono riuscite a comunicare attraverso il linguaggio antico della solidarietà tra chi è costretta a comuni sofferenze. Per le donne la sconfitta vale il doppio, perché si sono esposte prima e maggiormente. Perché per la prima volta, dopo tanti anni, sono state protagoniste di un confronto in campo aperto che le riguardava direttamente. E hanno perso. Ora si profila l’appuntamento sulla 194, che sarà attaccata, eccome se sarà attaccata, probabilmente in modo subdolo e strisciante perciò ancora più pericoloso. Quella battaglia non può essere perduta. Allora forse è giunto il momento per le donne di interrogarsi sul loro linguaggio e sulla presenza nella società, sul dove essere e sul come starci, su un’autoreferenzialità piacevole ma improduttiva, che in tanti anni le ha allontanate rendendole isole di un arcipelago troppo polverizzato ed estraneo. Ora occorre riannodare i fili di un dialogo interrotto e, nella convinzione che non esistano argomenti di esclusiva competenza di magnifiche intelligenze, le donne devono attrezzarsi per continuare la guerra della civiltà e del progresso. Hanno perso una battaglia perché non erano adeguatamente attrezzate, hanno sottovalutato l’impresa e sopravvalutato la loro capacità di dialogo. Ora si riparte, da quel venticinque per cento. Dopo il lutto, si sà, la vita continua, con dolorose assenze ma con rinnovata forza che serve, appunto, per colmarle.
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