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Riforme, a misura di genere<br>

Riforme, a misura di genere

Femminismi / 1 - L’intreccio complesso tra pubblico e privato e la presenza delle donne nelle istituzioni: questioni non risolte dopo anni di dibattito delle donne. Siamo ancora al palo tra diritti e elargizioni

Giancarla Codrignani Martedi, 22/12/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2009

Dunque, un partito ha finalmente come presidente una donna. Per le regionali del 2010 erano/sono stati messi in circolazione alcuni (pochi) nomi di donne, e perfino una minacciata sfida Bonino/Polverini, qualitativamente senza confronto in campo maschile.

Alle amiche del femminismo radicale o del postfemminismo basta? Archiviamo Lonzi, Irigaray, Cixous, Muraro, Cavarero, se "la Bindi" significa "la parità"?

Ovvio che tutte siamo contente anche per le soddisfazioni formali e simboliche e a Rosy va tutta la nostra solidarietà. Forse, però, non era questo il senso delle centomila firme raccolte per il "non sono a sua disposizione", coerente risposta bindiana alle offese istituzionali (provenivano dal Capo del Governo!) subite dal genere femminile intero. Ne è riprova la lettera di Mariella Gramaglia che un mese fa suscitò qualche scalpore per essere stata indirizzata a Gianfranco Fini non senza imbarazzo, ma con "fiducia". Le richieste erano condivisibili (la costituzione di un gruppo di giuriste per l'ottica femminile nel legislativo, l'attuazione delle pari opportunità elettorali, una scuola di formazione politica per ragazze....), ma si suppone che Mariella sperasse di essere seguita da un tempestivo intervento "di genere" da parte di Bersani nel suo discorso di investitura.

Sempre meglio che in Cecenia, si dirà, dove Natalia Estemirova, prima di essere uccisa, era stata convocata dal capo di governo Kadyrov perché rifiutava di indossare il velo (recente imposizione governativa) nei ministeri e il presidente aveva così argomentato: poiché i capelli scoperti lo eccitavano, lei, senza velo, forse voleva eccitarlo, quindi era una puttana e non una donna. Per Berlusconi, invece, la donna che eccita va fatta ministra: contrario e perciò uguale a Kadyrov. Intanto non si sa nulla del Rwanda, dove per legge il Parlamento è per oltre il 40% "rosa", ma dove le riforme dello stesso colore non debbono avere fatto molta strada. In Europa, d'altra parte, resta la contraddittoria soddisfazione delle pur necessarie "quote" da specie protetta.

Forse la situazione è ancora così ambigua nelle difficoltà da necessitare ulteriori approfondimenti. Perché, domandiamocelo, conosciamo sufficientemente il substrato del contesto socio-politico nel quale siamo totalmente immerse e in cui viviamo bene o male come gli uomini, ma che non è stato pensato e formato dal nostro pensiero o per il nostro interesse? La lettera di Mariella a Fini ha confermato che le donne hanno interessi comuni e non sono, né per natura né per storia, di destra o di sinistra. Tuttavia resta pur sempre vero che la storia dell'emancipazione e della libertà femminile ha avuto orientamento progressista e le femministe sono sempre state o di sinistra o libere pensatrici. Ma anche le reazionarie che abitano diverse case politiche, se ne prendono cura come del "bene comune" anche per la cittadinanza femminile, mentre sostanzialmente replicano il ruolo assistenziale della struttura familiare.

Alla fine degli anni Settanta (del secolo scorso) a Bologna, dopo che io ero stata candidata, nasceva l'associazione femminista "Orlando". Tutte, io per prima, eravamo d'accordo che chi entrava nelle istituzioni "maschili" non poteva associarsi a gruppi femministi ed è così che io non risulto socia fondatrice, anche se continuavo a frequentare in totale amicizia. Con gli anni la situazione è cambiata e si è capito che, almeno per convenienza, le istituzioni erano interessanti. Tuttavia la presunzione di incompatibilità era ingenuamente settaria, ma aveva un suo senso. Infatti restava l'estraneità anche se non si negava l'importanza di presenze femminili che, assessore o parlamentari, veicolassero le proposte delle donne e, soprattutto, sostenessero le iniziative delle associazioni, ad alcune delle quali Comuni, Regioni ed autorità nazionali ed europee conferivano deleghe per l'attuazione delle pari opportunità e finanziamenti per progetti presentati.

Ma, forse, non abbiamo misurato fino in fondo le strutture e le ideologie più o meno implicite che sottostanno alle cariche e che non hanno reso "simpatiche" all'orecchio femminile - che pur ne accettava la rilevanza - espressioni formalmente ineccepibili quali "pari opportunità" o "tutela" (della legge). Più chiaramente con un esempio: nel marzo 2003 il Parlamento, con grande soddisfazione espressa da deputate e senatrici, ha deliberato una riforma dell'art. 51 della Costituzione per promuovere (e non "garantire") le pari opportunità (e non i "pari diritti") per un'effettiva parità elettorale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Anche i partiti impegnati a realizzare il 50/50 rinfacciano alle donne, senza domandarsene la ragione, la difficoltà di reperimento delle candidate. Perché vorrebbero diventare casalinghe delle istituzioni senza diritti propri? Continuare ad accettare come aiuti alle famiglie le riduzioni fiscali e non i servizi?

Riformare l'esistente appare difficile anche per gli uomini; riformarlo a misura di genere è molto più complicato. Strutture e istituzioni sono il risultato di idee e operazioni di mediazione che si sono amalgamate nel tempo, confluendo in bacini culturali complessi. Dentro ci stanno quelli che ne capiscono le regole perché in qualche modo, anche retrospettivamente, ne sono responsabili; e sono gli uomini. Il ragionamento vale per la cultura in generale, ma un conto è dibattere principi, ideali e costumi inevitabilmente in evoluzione, un altro agire politicamente.

Personalmente mi sono resa conto di recente di un nostro handicap ascoltando una lezione di Nadia Urbinati sostanzialmente riferita alla cultura liberale. Il tema non è stato oggetto di studio privilegiato del femminismo, che ha sempre scelto il progressismo e la sinistra, anche radicale. Pure per l'uomo è rischioso affidarsi unicamente al criterio di proprie verità ideali e spesso l'opposizione di sinistra è consistita in prassi del "no" unite al compromesso di vertice.

Come donne dovremmo, ancor più dell'altro genere, essere consapevoli di come si sono formati concetti come "pubblico" e "privato". Il pensiero liberale è sostanzialmente pessimista sul valore della politica e considera come valore alto ed esclusivo solo il privato, luogo degli affetti, della famiglia, delle relazioni, dell'impresa. La sua essenza comporta una propria, interna eticità, se è vero che nel privato non si può fare tutto quello che si vuole, ma quello che si deve: ovvio che la natura umana, avendo i suoi limiti, non è sempre giusta, ma i correttivi vanno sempre affidati alla "libera" iniziativa, senza intrusioni improprie. Il "pubblico" è il luogo della necessità e la politica deve cercare gli accomodamenti secondo giustizia: anche lo Stato e il Parlamento esistono per la necessità di risolvere i grandi problemi. La democrazia, d'altra parte, è il mondo della parola, non del populismo unanimista: le leggi e la giustizia si danno argomentando e assumendo per uguale anche chi uguale non è. Come per il mondo greco antico, il discorso privato serve per convivere, quello pubblico per persuadere.

Può sembrare che questo sia ovvio e, forse, limitante. Ma è alla base delle strutture, anche mentali, nelle quali viviamo. Come donne vale la pena di approfondire e di impegnarci in ulteriori ricerche. Infatti le donne vivono assorbite, fin dall'infanzia e in maniera preponderante, nell'ideologia del privato. Che è quel luogo dello "stare bene", anche se di lì partono le grandi ingiustizie e le grandi violenze. Le donne accettano il doppio o triplo lavoro, perché occuparsi della casa, delle persone più (o meno) care, dei bambini, degli anziani e dei deboli è gratificante e, in quanto direttamente umano, prioritario. Ma non riescono, per esempio, a far capire che la "cura" non è un'operazione oblativa, ma un valore umano, richiesto a tutti e condivisibile anche dagli uomini, che la politica deve sostenere con l'ausilio dei servizi sociali. Dalla stessa percezione della realtà nascono le difficoltà per le donne di denunciare le vessazioni in famiglia anche quando riguardano stupri e pedofilie e di sostenere al pronto soccorso evidenti bugie a riparo del coniuge che è padre dei loro figli. Il privato femminile resta, dunque, inteso come regno di un'etica di responsabilità che si sa non condivisa e non sociale; ma anche come piacere della casa, della vita di coppia, dei miti dei mulini bianchi e della tv.

Ma il privato resta anche alla base delle ragioni per cui il femminismo risulta la sola novità della filosofia contemporanea, senza che sia riuscita a produrre una propria politica. Che resta, per tutte le posizioni di pensiero, dominio del pubblico, con esclusione del privato e rimozione dei soggetti che abitano "per natura" il privato, cioè le donne e, a partire da loro, i bambini, i malati, gli anziani improduttivi da sempre appaltati al destino femminile. Inossidabile anche alla formulazione moderna del diritto che non può più negare la parità di sesso, ma non riesce a comprendere, neppure lessicalmente, la parità "di genere". I diritti umani si riducono tuttora, in concreto, a erogazioni di benefici per i "diversi" a cui gli stati possono perfino gradualmente consentire. Ma finché la prima di tutte le differenze non diventerà co-autrice della politica, difficilmente la libertà e la giustizia diventeranno - ripeto: anche mentalmente - uguali per tutti in quanto diritto e non beneficenza.



(22 dicembre 2009)

 

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