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Ridefinire l’umano: impressioni sulla Biennale d’Arte di Venezia 2022

Ridefinire l’umano: impressioni sulla Biennale d’Arte di Venezia 2022

Tra pandemia e invasione russa dell’Ucraina va in scena “Il latte dei sogni”, la mostra curata da Cecilia Alemani in cui le artiste sono l’80 per cento dei partecipanti.

Martedi, 26/04/2022 -

Posticipata di un anno a causa della pandemia di Covid-19, il 23 aprile ha inaugurato la 59esima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, che resterà aperta fino al 27 novembre 2022. Nonostante il protrarsi dell’emergenza sanitaria, quest’edizione vede comunque la partecipazione di ottanta nazioni (nel 2019 erano novanta), ospitate negli storici padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e in città. Mentre la mostra internazionale intitolata Il latte dei sogni, curata da Cecilia Alemani (per la prima volta un’italiana dirige la Biennale di Venezia), raccoglie oltre 1500 opere di 213 tra artiste e artisti (180 di loro non hanno mai partecipato alla Biennale), provenienti da 58 nazioni. Queste cifre stanno già a testimoniare come la riuscita dell’esposizione abbia del miracoloso, considerando che, per molto tempo, il lavoro organizzativo si è potuto svolgere esclusivamente da remoto e che ancora oggi la situazione sanitaria internazionale rende complicati gli spostamenti e i trasporti. A queste difficoltà, poco prima dell’inaugurazione, si è aggiunta l’aggressione russa all’Ucraina.



L’apertura della 59esima edizione della Biennale di Venezia è dunque venuta a coincidere con lo scoppio di una guerra brutale ed è lecito domandarsi se la mostra Il latte dei sogni, concepita in un momento diverso, frutto di uno stato d’animo generato dalla condizione legata alla pandemia, sia ora in grado di riflettere l’attualità e confrontarsi con quanto sta accadendo.

Il titolo Il latte dei sogni è preso in prestito da un libro di favole per bambini di Leonora Carrington (1917-2011), artista surrealista britannica, trasferitasi in America per fuggire all’internamento in un ospedale psichiatrico e agli orrori della seconda guerra mondiale. Nel suo libro Leonora Carrington immagina un mondo magico in cui ci si può continuamente trasformare in altro da sé, un’idea di metamorfosi incessante degli esseri viventi, e perfino degli oggetti inanimati, che ispira la mostra. Come ha dichiarato Cecilia Alemani, infatti, la rassegna affonda le radici nel pensiero postumano, che mette in discussione l’antropocentrismo, l’idea, prettamente occidentale, dell’uomo della ragione, misura di tutte le cose, postulando invece alleanze con specie diverse, corpi permeabili e ibridi. In quest’ottica è naturale che la mostra abbia finito per  includere una cospicua maggioranza (l’80 per cento) di artiste donne e individui non binari. Tra le ispiratrici della rassegna Cecilia Alemani ricorda in particolare la filosofa italiana del postumano Rosi Braidotti, che parla della fine della centralità dell’uomo, del divenire-macchina e del divenire-terra, tre tematiche che percorrono l’intera mostra, allestita tra il Padiglione Centrale ai Giardini e il complesso dell’Arsenale. Al centro della mostra, quindi, più che l’interesse per l’attività onirica, c’è il desiderio di ridefinire l’umano, superando l’idea del soggetto maschile, bianco ed europeo quale fulcro dell’universo, nonché l’idea della supremazia di una specie sulle altre. In questo senso allora la mostra appare di grande attualità nel mettere in discussione un modello che al momento sembra incarnato proprio da Putin, nella sua cieca volontà di sopraffazione.

Alla Biennale ci sono poi altri fatti che, con maggiore evidenza, ci riportano alla realtà del presente. Il Padiglione russo ai Giardini è chiuso perché allo scoppio della guerra, prima ancora che la posizione politica del governo italiano si manifestasse attraverso le sanzioni, il curatore e i due artisti hanno rassegnato le dimissioni. E’ facile prevedere che nel corso della rassegna davanti al Padiglione russo qualcuno deciderà di inscenare delle forme di protesta. Ma la Biennale ha lavorato soprattutto affinché ci fosse il Padiglione dell’Ucraina, che è stato allestito all’Arsenale, dove è esposta l’opera La fontana dell’esaurimento di Pavlo Makov, portata fortunosamente in salvo dalle bombe. L’installazione, composta di 78 imbuti in cui scorre l’acqua, nasceva negli anni Novanta come denuncia ambientalista dello sfruttamento delle risorse idriche, ma oggi acquista un nuovo significato evocando tragicamente il dramma delle città ucraine assediate e assetate. Su invito della Biennale, nello spazio esedra ai Giardini, è stata inoltre allestita Piazza Ucraina, progettata dall’architetta ucraina Dana Kosmina, con al centro un’installazione fatta di quei sacchi di sabbia che si usano per proteggere i monumenti durante i conflitti. Un’ulteriore testimonianza di solidarietà verso la cultura ucraina si trova quasi all’ingresso del Padiglione Centrale dove, subito dopo il monumentale Elefant (1987) dell’artista tedesca Katharina Fritsch, vincitrice del leone d’oro alla carriera, Cecilia Alemani ha aggiunto (fuori catalogo), una gouache dal titolo Spaventapasseri (1967) della pittrice ucraina autodidatta Maria Prymachenko (1909-1997) che, in uno stile popolare e naif, raffigura una creatura fantastica, perfettamente in sintonia con gli esseri mutanti che popolano la mostra.

Sempre nel Padiglione Centrale spiccano le sale monografiche dedicate a Paula Rego, artista portoghese che vive a Londra, presente con perturbanti dipinti e sculture che alludono a inconfessabili crimini di violenza domestica, e all’artista cilena Cecilia Vicuña, l’altra vincitrice del leone d’oro alla carriera, con dipinti che affondano le radici nella cultura indigena (un dettaglio di Bendígame Mamita del 1977 è stato utilizzato per la comunicazione visiva della mostra). Molto suggestiva anche la sala che accosta le sculture in cristallo dai colori opalescenti e dalle inquietanti forme ibride dell’artista rumena Andra Ursuta e i “quadri a maglia” dell’artista tedesca Rosemarie Trockel. All’interno del percorso espositivo Cecilia Alemani ha inoltre previsto cinque piccole mostre tematiche, definite dalla curatrice “capsule del tempo”, distinte visivamente dalle opere contemporanee grazie ad un allestimento di volta in volta diverso, affidato allo studio di design Formafantasma. Le capsule presentano opere del Novecento, spesso dimenticate o trascurate dalla storiografia ufficiale.

L’Arsenale si apre invece con la scenografica sala che ha, al centro, Brick House (2019), un monumentale busto in bronzo di una donna nera, dell’artista afro-americana Simone Leigh, e alle pareti le misteriose e fantasmatiche stampe in bianco e nero dell’artista cubana Belkis Ayón (1967-1999). Da notare che Simone Leigh, oltre a essere stata invitata nella mostra di Cecilia Alemani, è stata scelta a rappresentare gli Stati Uniti nel padiglione ai Giardini, prima volta per un’artista afro-americana. E la giuria della Biennale l’ha premiata con il leone d’oro quale migliore partecipante alla mostra Il latte dei sogni. Per la miglior partecipazione nazionale la giuria ha invece premiato l’artista afro-caraibica britannica Sonia Boyce, che nel Padiglione della Gran Bretagna ha creato uno spazio che restituisce valore alle cantanti nere inglesi che, quasi invisibili, negli anni hanno fornito con la loro voce la colonna sonora emotiva della vita di milioni di persone. Una menzione speciale è andata all’Uganda e un’altra al bellissimo Padiglione della Francia, rappresentata per la prima volta da un’artista franco-algerina, Zineb Sedira, che ha realizzato un progetto sul cinema politico militante, ricostruendo nelle sale le scene di alcuni film di Pontecorvo, Visconti, Lorenzini, Scola e intrecciandole con la propria vicenda autobiografica. Ma diversi altri padiglioni nazionali avrebbero certamente meritato un premio: dal Belgio, con i poetici video di Francis Alÿs, il quale indaga la natura del gioco nei bambini, alla Grecia, dove, attraverso un cortometraggio girato con la realtà virtuale, l’artista e regista Loukia Alavanou ci trasporta, sulle orme di Edipo, in un desolato ghetto rom vicino Atene, da Malta con la sulfurea installazione dell’italiano Arcangelo Sassolino, alla Germania di Maria Eichhorn, fino alla Corea ipertecnologica di Yunchul Kim. Né va dimenticato lo struggente e totalizzante progetto immersivo di Gian Maria Tosatti per il Padiglione italiano Storia della Notte e Destino delle Comete, curato da Eugenio Viola, che propone un viaggio simbolico attraverso l’ascesa e la caduta del sogno industriale italiano. Senza contare, poi, alcune scelte di forte valenza simbolica, come l’Olanda che ha ceduto il proprio padiglione all’Estonia, la quale vi ha ambientato una storia di colonialismo, botanica e imperialismo;  la Polonia che presenta l’artista rom Malgorzata Mirga-Tas (ed è la prima volta nella storia della Biennale che un’artista rom espone in un padiglione nazionale) e il Padiglione dei Paesi Nordici (Finlandia, Norvegia, Svezia) trasformato nel Padiglione degli indigeni Sami.

Tornando all’Arsenale, lungo il percorso si incontrano soprattutto lavori realizzati con i più svariati  materiali e opere che mettono in crisi i confini tradizionali che la cultura occidentale ha fissato per separare arte, artigianato e design. Questa insistenza sulla materia (sono pochi, infatti, i video) si spiega anche come reazione all’esperienza vissuta durante la pandemia, quando la tecnologia ci ha permesso di comunicare a distanza, avvicinandoci ma di fatto tenendoci separati fisicamente, quindi come un bisogno di ritorno alla realtà concreta delle cose e dei corpi.

Durante la Biennale sono, come sempre, innumerevoli gli eventi organizzati in città, ma sulle artiste si segnalano in particolare: la bella esposizione Surrealismo e magia. La modernità incantata presso la Peggy Guggenheim Collection (fino al 26/9), che approfondisce il lavoro di alcune esponenti del Surrealismo presenti anche alla Biennale; la retrospettiva della scultrice ucraina naturalizzata statunitense Louise Nevelson (1899-1988) alle Procuratie Vecchie (fino all’11/9); la splendida antologica della pittrice Marlene Dumas (Cape Town, 1953) a Palazzo Grassi (fino all’8.1.2023). Dumas vive ormai da molti anni in Olanda, ma è cresciuta in Sudafrica durante l’apartheid, perciò è sempre stata consapevole dei danni provocati dal razzismo e in un’intervista del 1997 ha dichiarato: “Le persone bianche condividono una colpa collettiva che mai sarà perdonata nel corso della nostra vita”. Un senso di colpa e un desiderio di espiazione che sembrano aleggiare anche su questa Biennale.

Per maggiori informazioni: www.labiennale.org

Didascalie

Piazza Ucraina (foto Marco Cappelletti, courtesy La Biennale di Venezia)
Sala con l’opera di Katharina Fritsch nel Padiglione Centrale ai Giardini (foto Roberto Marossi, courtesy La Biennale di Venezia)
Sala con le opere di Andra Ursuta e Rosemarie Trockel nel Padiglione Centrale ai Giardini (foto Marco Cappelletti, courtesy La Biennale di Venezia)
Sala con la scultura di Simone Leigh e le stampe di Belkis Ayon all’Arsenale (foto Roberto Marossi, courtesy La Biennale di Venezia)
Veduta dell’Arsenale (foto Roberto Marossi, courtesy La Biennale di Venezia)
Interno del Padiglione della Francia (foto Marco Cappelletti, courtesy La Biennale di Venezia)


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