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Ricerca, passione infinita

Ricerca, passione infinita

Futura.3 / pensieri, esperienze, tecniche - Precario e all’avanguardia: è un Centro Ricerche a Modena. Intervista a Daniela Vallerini

Bartolini Tiziana Mercoledi, 19/09/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2012

“Lavoriamo a tre filoni principali di ricerca, uno dei quali è finalizzato a curare attraverso una terapia cellulare un certo tipo di leucemia acuta caratterizzata dalla presenza di una mutazione genetica chiamata ‘Philadelphia’. Il principio diverso dalla chemioterapia convenzionale è quello di cercare di istruire i linfociti dei pazienti a riconoscere le cellule malate e a distruggerle. È una tecnica assolutamente innovativa e che si fa in pochissimi centri. Attualmente stiamo trattando tre persone e ci accingiamo a sottoporre gli esiti delle cure, al momento sperimentali, all’attenzione di una rivista internazionale. I risultati sono incoraggianti perché i pazienti sopportano molto bene la terapia in quanto si tratta di loro cellule, che quindi non innescano processi di rigetto, che però sono istruite a riconoscere le cellule malate e ad ucciderle”. Daniela Vallerini è laureata in Biologia con 110 e lode ed è dottore di ricerca. Vive a Carpi e lavora a Modena, nel gruppo diretto dal professor Mario Luppi - a sua volta giovane professore (48 anni) e nuovo direttore del Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche Materno-Infantili e dell’Adulto e membro del Senato Accademico dell’Università di Modena e Reggio Emilia - insieme a Leonardo Potenza, Patrizia Barozzi, Giovanni Riva, Chiara Quadrelli e Eleonora Zanetti, tutti ricercatori del laboratorio di Ematologia Sperimentale. Il laboratorio si occupa di ricerca nell’ambito delle malattie ematologiche e delle complicanze infettive che possono insorgere in pazienti immunocompromessi. Con Daniela Vallerini ci avviciniamo al mondo della ricerca, guardando più da vicino una dimensione decisamente affascinante.



La ricerca di cui ci ha parlato sembra molto importante: si parla di aumentare le speranze di vita per malati gravi. Come è iniziata?

Tutto è partito dalla segnalazione di un medico, molto attento, che ha notato che un aumento del numero dei linfociti totali nei pazienti era associato alla riduzione di malattia e quindi si è chiesto se fra quei linfociti non ci fossero anche quelli specifici in grado di controllare la malattia. Abbiamo individuato queste cellule e le abbiamo studiate. Ci siamo chiesti: se esistono queste cellule perché non proviamo ad espanderle e a infonderle nei pazienti per tenere sotto controllo la malattia? Quindi, in collaborazione con il gruppo di lavoro coordinato dalla Dr.ssa Patrizia Comoli presso l’IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia, abbiamo avviato la ricerca su tre pazienti, che attualmente stanno bene. Sembra che la loro malattia sia in regressione e, anche se non possiamo dire che siano guariti, riteniamo i risultati incoraggianti.



Come definiresti la ricerca: un lavoro di fantasia oppure è un campo in cui occorre solo metodo e competenze?

Credo che sia un mix delle due cose. Nel nostro caso specifico, se non ci fosse stata la sensibilità di un bravo medico attento a notare un dettaglio, non avremmo avuto il ‘via’. Quella è stata una felice intuizione, ma poi c’è voluto molto studio e molti esperimenti per dimostrare che quei linfociti erano veramente in grado di uccidere le cellule malate. Sicuramente per fare ricerca devi essere molto motivato e poi ci vuole tanta dedizione. È quasi una missione, soprattutto in Italia se consideriamo quanto poco è investito in termini di risorse economiche.



Già, la storia dei precari della ricerca, dei cervelli in fuga e dei pochi investimenti…..

Io, come molti altri colleghi, sono assegnista di ricerca. Si va avanti di anno in anno con la speranza di trovare i soldi per rinnovare il contratto. In Italia questo è uno dei pochi modi per fare ricerca nelle università pubbliche. So che la condizione non è esaltante e quando ho iniziato l’università non mi immaginavo un futuro da “precaria a vita”, ma voglio restare a lavorare in Italia perché nonostante tutte le difficoltà mi piace vivere nel mio paese e credo sia importante continuare a fare ricerca in Italia.



Il problema del sostegno economico alla ricerca non è di facile soluzione: i soldi pubblici sono pochi, ma i privati sono interessati a finanziare solo ciò che potrà poi dare loro un guadagno nel breve termine. Come si risolve la questione?

Per sostenere la ricerca di base, che solo dopo molti anni può portare a risultati economicamente significativi, ci vorrebbero molti più investimenti pubblici. È difficile, soprattutto in questo momento di crisi. Una strada potrebbe essere quella di donazioni libere e defiscalizzate da parte di privati o aziende. Per loro il tornaconto sarebbe immediato con il risparmio delle tasse e il ricercatore potrebbe essere svincolato da pressioni dirette dell’investitore. I contratti nel nostro laboratorio sono finanziati in gran parte da donazioni provenienti da associazioni benefiche come AIL o con la partecipazione a progetti di ricerca nazionali e internazionali istituiti sia da associazioni come AIRC, sia da case farmaceutiche che da enti pubblici come Regione, MIUR e Comunità Europea. Si tratta di fondi assegnati su base meritocratica dopo partecipazione a bandi pubblici. In pratica ci auto-manteniamo con le nostre produzioni scientifiche che ci consentono di attrarre donazioni e di partecipare a nuovi progetti di ricerca.



La ricerca si svolge prevalentemente in team. Considerato l’individualismo che permea la società, è difficile capire le dinamiche che regolano i vostri rapporti nel gruppo. Come siete organizzati?

Il nostro gruppo è attualmente composto da sei persone tra biologi, biotecnologi e medici, poi ci sono parecchi studenti e a volte nel laboratorio c’è un po’ di affollamento, ma fondamentalmente andiamo d’accordo e soprattutto ci rispettiamo, siamo ben organizzati: ciascuno sa cosa deve fare e ci aiutiamo fra noi. Sicuramente ci sono persone che hanno più voglia di emergere, ma siamo consapevoli che la nostra forza è il gruppo. Il lavoro in laboratorio è molto articolato e richiede il contributo di tutti per arrivare ad un risultato. Non manca la competizione anche tra vari gruppi di ricerca, ma se ciascuno fa bene la sua parte il beneficio poi arriverà per tutti.



Si sente una donna che lavora per o nel futuro?

Penso che nel mondo della ricerca, e non solo, tutti cerchino di immaginare cosa ci riserverà il futuro. Per quel che mi riguarda credo di lavorare per il futuro, per cercare nel mio piccolo di migliorare anche una piccola cosa nel presente di cui poi qualcuno potrebbe beneficiare in seguito, per esempio in laboratorio stiamo lavorando anche per sviluppare un nuovo test per diagnosticare infezioni fungine invasive che rappresentano frequenti complicanze in pazienti immunocompromessi e che purtroppo hanno elevati tassi di mortalità. Questa ricerca potrebbe portare ad una diagnosi più precoce che porterebbe ad una riduzione della mortalità dei pazienti, ma anche in questo caso proviamo a dare in un futuro prossimo le risposte che occorrerebbero già oggi.



A 39 anni come appare il futuro?

Come dicevo prima non immaginavo che la precarietà sarebbe stata la “costante” della mia vita lavorativa, ma anche con queste modalità il lavoro rimane per me fondamentale. Anche se in questo momento non riesco ad intravedere un futuro roseo, voglio continuare a sperare perché In Italia ci sono ancora tante persone che nutrono una vera passione per la ricerca e credo non ci sia soddisfazione più grande, lavorativamente parlando, di quando la passione della tua vita diventa anche il tuo lavoro.

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