Dibattiti/ Violenza - Le riflessioni di Anna Bravo e la parzialità storica di una visione unica della violenza
Giancarla Codrignani Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2005
Anche le donne sperimentano i loro revisionismi? Il dibattito che si è sviluppato su “Repubblica” attorno al saggio di Anna Bravo – pubblicato su Genesis, la rivista della “Società delle storiche”- intitolato “Noi e la violenza: trent’anni per pensarci” farebbe pensare di sì. Davvero il nostro è un tempo di ri-pensamenti: se venissero solo per raddrizzare gli schematismi, sarebbero i benvenuti.
In realtà la discussione su “violenza e aborto” – o, per dir meglio “la violenza dell’aborto sul feto” più che essere “revisionista”e rappresentare un’involontaria collusione con il “movimento per la vita”, rappresenta una delle tante “differenze tra noi” rispetto al tema di fondo della “violenza”. Più la analizziamo, più scopriamo che è uno di quei nomi plurali il cui significato si rifrange infinite volte con aspetti specifici sulla storia delle donne e sulle loro esperienze personali. Chi ha fatto la Resistenza, chi si è solo impegnata nella campagna per il divorzio, chi ha fatto politica per la prima volta con la legge e il referendum sull’aborto, chi oggi non fa né politica né femminismo è segnata da differenze profonde, perfino a livello simbolico, rispetto al campo sconfinato della violenza.
La partigiana che, finita la guerra, aveva deposto le armi con l’intenzione di rimuoverle per sempre dalla storia (e che tuttavia restava intrappolata a fianco di un uomo che la faceva seguire a piedi l’asino che lui cavalcava, o che abortiva con il prezzemolo che l’avvelenava) votava per il divorzio e per l’aborto senza alcuna idea di femminismo. Le sostenitrici del divorzio avevano limpidamente a cuore la loro dignità, non il mainstreaming. L’interruzione volontaria di gravidanza, agitata dalla minoranza radicale, ha coinvolto in una risposta corale tutte le donne: non dimentichiamo che la legge fu mantenuta dal 67% dei votanti – con una chiara egemonia femminile, in cui ebbero parte anche moltissime cattoliche – contro “una piaga sociale” che, punita dal codice, restava nascosta nella vergogna, soprattutto delle più povere, e nell’ipocrisia della società che la rimuoveva.
Non va dimenticato che la maggioranza delle donne che “dovevano” ricorrere all’aborto era – ed è ancora – quella delle coniugate. Durante la campagna, a Napoli, una donna, di fronte alla richiesta che anche il partner dovesse dare l’assenso per l’interruzione di gravidanza, rivendicava l’autonomia delle donne, ricordando che era proprio il marito a rifiutare di essere coinvolto: “ti dò la mia busta-paga; sei tu che sai se ce la fai a tenere un altro figlio…”.
In questo contesto facevano rumore le posizioni di quelle che allora erano più giovani ed erano in genere legate alle aree politiche “extraparlamentari”, gli “angeli del ciclostile”, come Natalia Aspesi ricorda: cittadine uguali per un principio egualitario che si contrapponeva all’emancipazionismo, ma non teneva conto pienamente della “differenza di genere” che pure studiavano. In quell’area può esserci stata una certa indifferenza materialistica rispetto alle pratiche abortive, anche perché era di moda un’ingenua disponibilità a “darla” piuttosto che a prevenire gravidanze indesiderate. I radicali (maschi) erano sbrigativi e brutali nella loro difesa delle legittimità dell’aborto, ma Adele Faccio, che aveva fatto un figlio e che conosceva il muoversi del suo corpo nel grembo, non fu mai “violenta” se non contro l’ipocrisia di chi voleva le donne colpevoli e sottomesse.
Intendiamoci: per far approvare una legge che coinvolgesse la società nella responsabilità delle interruzioni di gravidanza volontarie, bisognava partire dal riconoscimento della “maternità libera e consapevole”. Era un principio che ancor oggi dovrebbe riconoscere il rapporto sessuale fecondo solo per il consenso della donna; fu tuttavia inteso da molte come un cedimento rispetto all’assoluta autonomia della donna.
Non si parlava allora “a difesa” del feto o dell’embrione; come ritengo che non se ne dovrebbe trattare oggi, dato che questo, sì, incrinerebbe la libertà femminile, se è vero che giuridicamente (che è il piano che dobbiamo tenere presente) sarebbe immediato il conflitto di interesse fra due soggetti di tutela per legge, la madre e il figlio e si incomincerebbe a discutere di responsabilità civile (può la donna mettere a repentaglio la vita del feto se cade perché va a spasso liberamente?) o di norme patrimoniali (l’embrione può ereditare?).
Chi fa riferimento ai feti o agli embrioni come a oggetti di violenza e pensa alle loro eventuali sofferenze, può farlo nell’ambito religioso, morale o scientifico. Dal punto di vista delle leggi significa solo identificare feti ed embrioni come “persone”, con tutti i conflitti che ne derivano. Per questo i documenti dell’epoca – discorsi parlamentari, interventi socio-politici e scientifici – non trattano sotto quest’angolatura l’argomento, così come ancora oggi – davanti al referendum per la fecondazione assistita – ritengo impropria più che inopportuna la difesa della personalità del feto.
Le donne sono, come gli uomini, ignare di che cosa siano la vita e la morte, ma per quella che è la loro competenza - più diretta e interiorizzata di quella maschile – sanno che è in loro due volte, perché si sentono viventi e perché possono riprodurre l’umanità nel loro corpo. Processo complesso che conoscono anche solo intuitivamente, ma che le rende consapevoli delle modalità della gestazione, della presenza interna al loro corpo, dei movimenti del piccolo visibile solo dall’ecografia, della comunicazione con quello che è già amato senza essere ancora il figlio o la figlia. la gestazione è misteriosa, ma le donne l’accolgono con naturalezza, consapevoli che ogni giorno è a rischio, che può costare la vita e che migliaia e migliaia di embrioni se ne vanno da soli, senza che neppure ci si accorga dell’avvenuta ovulazione, salvo un anche piccolo ritardo mestruale. Di quale violenza sono vittime quei concepiti che scorrono giù per gli scarichi? Chi ricorre alla “violenza” la agisce sul suo corpo, sulla sua coscienza di persona consapevole di intervenire nel processo di vita e di produrre a se stessa un trauma che durerà per sempre: perché si parlerebbe del costo psicologico, se non si sapesse di fare, dopo aver subito, violenza?
Ricordo molto bene che a suo tempo le donne parlavano della violenza dell’aborto: volevano una legge proprio per aprire un percorso che, eliminando la clandestinità, consentisse un futuro senza aborti attraverso l’impegno pubblico, l’educazione sessuale e la contraccezione. Dagli anni Ottanta (del secolo scorso) ogni prevenzione è stata rimossa e le donne si sono dovute arrangiare, emancipandosi nel prendere le iniziative, imponendo il preservativo ai loro uomini, proteggendosi con i contraccettivi, avviandosi al sesso libero come i maschi. L’emancipazione omologata non è una gran cosa, perché rimuove l’idea di violenza e la riduce a mero incidente; inoltre riguarda ancora poche ragazze, che appaiono più visibili nelle inchieste giornalistiche. La maggioranza resta abbastanza “ignara”, si trovano ancora ragazze che “si devono sposare” per una gravidanza imprevista in arrivo e, anche se diminuiscono gli aborti, gli uomini continuano a restano abbastanza indifferenti e irresponsabili. Eppure per evitare anche i conflitti con gli embrioni, basterebbe che chiedessero alla loro donna se è disposta a diventare madre in conseguenza del loro, magari reciproco, desiderio. Ma gli uomini fanno conto di non sapere come nascono i bambini e la libertà delle donne è affidata alla sorte.
Nel caso che una donna si trovi incinta senza averlo voluto, è, come dice il linguaggio popolare,”nei guai”: perché mai dovrebbe ubbidire alla legge dell’uomo e diventare custode del suo seme, sola colpevole di una violenza che segue a un’altra violenza? nessuna dice che si debba far ricorso alla interruzione di gravidanza né che sia una soluzione facile; si dice solo che nessuno può sostituirsi a chi vi fa ricorso e che la società la sostiene.
Anna Bravo fa bene a richiamare il problema del “fare violenza”, ma la sua analisi storica resta parziale proprio storicamente. Come per gli altri revisionismi: la violenza va combattuta in tutte le aree che ne sono infiltrate, a patto che non si carichino di violenza proprio le iniziative, anche forti e drammatiche, di chi cerca di rimuovere la violenza dalla storia.
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