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RECENSIONE al libro “ABBECEDARIO DI UNA EX BUONA A NULLA” di GABRIELLA MONTANARI a cura di Pietro Ro

RECENSIONE al libro “ABBECEDARIO DI UNA EX BUONA A NULLA” di GABRIELLA MONTANARI a cura di Pietro Ro

“Ma un abbecedario è anche una sorta di lista della spesa, un promemoria di quel che è bene aver sempre con sé, nella sporta della vita. Nella mia ho infilato i vivi e i morti preferiti, un paio di pensieri ossessivi a cui sono affe

Giovedi, 21/04/2016 - L’impossibilità di dare ordinamento a fenomenologie di per sé eterogenee, trasformando vaghi indicatori linguistici nei cardini di una struttura permanentemente incerta, è stigma che a sua volta stigmatizza il gusto convenzionale dei lettori. Ben lungi dall’essere un semplice “abbecedario” . Abbiamo di fronte una raccolta di testi che pesa come se ci fossero infilati millenni di storia umana. Di questo implacabile «attraversamento» si lascia evincere la tensione di un io poetico teso a incalzare turbamenti e inquietudini, intuizioni e maledizioni.

Si fotografano attraverso l’uso di una parola eversiva/sovversiva gli antri più oscuri del quotidiano. Si rifiutano ipocrisie. Si polemizza contro la cecità dei puritani. Si salvano lo scarto, il dettaglio isolato, la miseria che la nostra scrittrice al contrario «tesaurizza». Nessun lirismo, solo pura rarefazione di momenti epifanici. Viene presupposta un’arte dagli intenti polemici e demistificatori, finalizzata a messaggi di protesta e rottura. Si legge:



“Buona a nulla... Beh, anche questo è un mestiere. Estenuante. Ex buona a nulla... Come titolo suona meglio e azzera la vena patetica, autocommiserativa. Inoltre, volenti o nolenti, prima o poi tutto diventa, o ritorna, EX. Dopodiché, se ne ha la forza o l'incoscienza, si ricomincia daccapo. Dall'inizio. Dalla prima lettera, per l'appunto. Il tutto per dire che, quando ci si ritrova a strutturare una raccolta a mo' di alfabeto, significa che è forse giunto il momento di tirare le somme. O forse, ma è solo un ignobile sospetto, significa che ormai non si sa più cosa cazzo scrivere.”

Si prende atto che tutto ciò che c’era da scrivere è stato già scritto, destinato alla memoria dei posteri ma egualmente disperso dal tempo. Si mette a fuoco un’epoca in cui i poeti continuano a brancolare come esseri sconfitti. Si delinea una contemporaneità stantia, logora, arenata in se stessa. Tutto, dunque, e non solo l’arte, che la società capitalistica ha neutralizzato, subirà uno scacco storico con i suoi residui di memoria. Eppure, se ci si ritrova a strutturare una raccolta a mo’di alfabeto, significa che si è soli davanti a due possibilità: o che è giunto il momento di tirare le somme, o forse, ma è solo un ignobile sospetto, significa che ormai non si sa più cosa cazzo scrivere. Arrendersi o continuare ad aggiungere carta su carta?



Sul piano stilistico, il tono dei componimenti apre squarci fulminei, con un andamento prosastico. Sul piano dei contenuti, domina una diarchia di opposti /complementari: estasi e annientamento, attrazioni irresistibili e estatiche contemplazioni, sensualità e raccapriccio, incompatibilità col presente e efflorescenze di dolore archetipo, incubi e sogni, reprobi e puttane, esuli e derelitti. Sul piano compositivo, le note d’apertura a ogni componimento suggeriscono l’idea di un’aderenza al programma strutturale dell’opera, quello di un abbecedario con intento diversamente didascalico, eticamente radicato nell’ hic et nunc, contro l’ipocrisia che invade le tavole del falso perbenismo. “Diplomacy” (pag.19) ben sintetizza quanto s’è detto poco prima. Quei diplomatici, che il giorno prima salvano ostaggi, si ritrovano il giorno dopo piacevolmente avvoltolati in una rete di ipocrisie e finzioni. Ne viene così denunciato il gretto conformismo per cui preferiscono lustro e decoro. Per non parlare poi di “Cancro” (pag.14), il male innominabile su cui si preferisce tacere. Ad esso, chi ha la vita davanti preferirebbe di gran lunga morire d’infarto, enfisema o incidente stradale, tutto fuorché vedersi lentamente lgorati dal CANCRO. Coloro che ne sono colpiti non invidiano chi differentemente da loro gode di ottima salute, perché sanno che sarebbe da stronzi. Al contrario, i capricciosi pretendono un giorno sì e uno sì il loro piatto preferito

(perché, tanto, chissà, se poi domani...) gli insofferenti, ti strillano "cambia canale, abbassa il volume!" gli orgogliosi, rifiutano il tuo braccio per andare al cesso. La civiltà dei consumi cancella ogni pietà, è artefice di abbruttimento e incapace di reti di soccorso reciproco, alimenta egoismo e interessi individuali.

In “Arthur” (pag.8) si snoda un omaggio al poeta Arthur Rimbaud. “Amo le notti in bianco

sgridate dal vento e dal vociare ebbro davanti al pub dei sodomiti, notti pruriginose più dell'herpes notti impazienti di vagiti d'alba”, in apertura. L’io lirico, divenuto consapevole, attraverso l’amore, dell’infelicità umana, sceglie paesaggi e situazioni estreme e violente.

All’antinomia intrinseca della nostra poetessa ho inconsciamente ricollegato quella della Saffo leopardiana. Anche costei la rara gioia rallegra, quando il turbine polveroso dei venti corre per il cielo limpido o i campi sconvolti. (…) Noi l’insueto allor gaudio ravviva quando per l’etra liquido si volve e per li campi trepidanti il frutto polveroso de’ Noti (Leopardi, Canti, Ultimo Canto di Saffo vv.8-10). Nel flusso delle metropoli di Londra o Parigi, corrono il vociare ebbro davanti ai pub dei sodomiti, camion del rusco che caricano resti umani ed elettrodomestici guasti.

Analizzando il componimento, vi sottolineo la simultaneità dell’esperienza visiva/immaginifica con quella della perdita. La sete di poesia amplifica la percezione, s’attesta al di là di confini validi a circoscrivere l’esperienza sensoriale, è un congedo per sempre da ciò ch’è stato per andare verso ciò che è qui e ora al solo confine tra vita e morte. Il solo modo per rievocare un modello, Rimbaud, è sedurre la morte, esaltarne il valore estetico/estetizzante, cercarne «la luce snaturata». Esseri scarnificati, oppressi dalle logiche del profitto e del guadagno, privi di memoria di sé s’aggirano per queste pagine. Così, in “Danny boy” (pag.20), ispirato all’omonima ballata irlandese, il passato di una donna negra riaffiora drammaticamente alla luce: “ il fantasma ossessivo di un padre scomodo, le budella del fratello, in bella mostra, sul pavimento e squallidi motel e fetore di taxi newyorchesi e notti fradice d’alcol e buchi neri

binari di coca e pompini da puttane allucinate e quelle voci in testa e il cannone di una magnum in bocca”. Quello stesso dio, che per anni ha rinnegato, la donna lo scopre nella carezza di un amore tardivo nell’infinità di un figlio. Un nodo centrale, quello di Dio. Mi sembra di poter ben sviluppare quest’aspetto a partire da un’analisi di “Faith”(pag.20). Scisma da Dio significa scisma dall’idea che a Dio vadano ascritte categorie di bene o male caratterizzanti l’impostazione morale comunemente impartita. La Montanari riflette sull’inapplicabilità di molti dei dogmi e precetti morali che gli stessi uomini di fede distribuiscono con la pretesa di rafforzare l’illusione che la vita abbia senso poiché dono d’un Dio che è anche creatore di morte. In realtà, spargere illusioni significa a sua volta nutrire anche a se stessi illusioni di onnipotenza. Non casualmente, la caduta di quell’illusione rende l’uomo maggiormente esposto alla sua solitudine esistenziale e alla mancanza di senso sicché si legge: volevo essere come lui, farci due chiacchiere, berci un crodino confidargli un giorno i miei figli oggi mi mancano i suoi indisponenti ostinati silenzi. Contro la morale tradizionale anche “Hindustan” (pag.34). Si dice in apertura: “india. dire che ci ho lasciato il cuore è dire solo una magra verità. un giorno, un entello dal ciuffo lo troverà in un angolo di old delhi e ci giocherellerà un po’ con la mano pelosa, prima di prenderlo e buttarlo in un cassonetto, pensando “che sozzoni, ‘sti occidentali...”. Quel cuore che, malgrado tutto, la nostra poetessa ha lasciato dopo il suo viaggio in India, cozza contro gli orientamenti di significato e di valore di un altro popolo che si vede aggredito dalle logiche di dominio occidentali. Poiché dunque le versioni del mondo sono molteplici, in che modo comprenderle tutte senza incorrere in giudizi positivi e negativi? A un approccio interrogativo alla questione vengono polemicamente contrapposti i versi che seguono “una madre accovacciata da millenni– le mammelle oblunghe che stillano sperma ed essenza di frangipani –conta i suoi miliardi di ossuti figli di basmati e piange fiumi sacri scivolosi di rinascite olio di canfora e stupri” . Viene fuori una donna umiliata su una dimensione fuori dal tempo, che vagheggiando fantasiosi atavismi ne piega le libertà individuali, con tanto di derelitta prole al seguito. Infine, per chiudere la nostra analisi, tratterò di uno degli ultimi componimenti della raccolta, “Yolanda” (tanto va la psicanalista al lapsus che le lasci un bel bottino...), a pag.99. La poetessa difende la propria inettitudine come suggello della sua autenticità. Per lei si pone come una forma di resistenza ai meccanismi alienanti della civiltà contemporanea. La terapia avrebbe infatti l’effetto di spegnere in lei le pulsioni vitali e dunque di normalizzarla. credo in un solo IO, fragile e potente lascio transfert e controtransfert agli incontri su internet mi fido del mio lapis più che dei nostri lapsus

pratico il coitus e non erigo totem a un tabù mal vissuto preferisco un menu ben assortito

e vivo lasciandomi vivere in attesa che mi si lasci vivere. Il rifiuto della psicanalisi come terapia è ancor più fermo poiché evoca sospetti di venalità: la tariffa non cambia

sborsare è terapeutico ringraziare, anche (…).



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