Domenica, 18/11/2018 - Si è svolto nel pomeriggio di venerdì 16 novembre, presso il Tribunale di Ravenna, il convegno organizzato dall’UDI in collaborazione con la Casa delle Donne, nell’ambito della Rassegna “Una società per relazioni” promossa dal Comune di Ravenna nel mese di novembre. Tale rassegna, giunta quest’anno alla sua quarta edizione, ha lo scopo di sensibilizzare la cittadinanza sui temi della violenza di genere, nella speranza di promuovere quel cambiamento culturale che è l’unico vero antidoto alla violenza maschile contro le donne.
Le relatrici del convegno ravennate hanno concentrato la loro attenzione sul tema della violenza sessuale, partendo dal documentario di Loredana Rotondo “Processo per stupro” che nel 1978 portò in televisione un processo per violenza sessuale celebrato nel Tribunale di Latina. La triste particolarità dei processi per violenza sessuale è che sono gli unici in cui è la vittima a diventare imputata, in cui la vittima è costretta a giustificare il proprio comportamento, nell’assurda eppure comune convinzione che ella deve aver fatto qualcosa di inappropriato per provocare il comportamento dell’uomo, la cui unica colpa sembra quella di non riuscire a resistere ai propri impulsi sessuali. “Perché gli uomini sono così”, diceva una donna intervistata per strada nel 1978. E dicono ugualmente donne e uomini intervistati per strada oggi.
Cos’è cambiato in questi quarant’anni? Uno degli avvocati che difendevano gli stupratori del 1978 affermava, rivolto alle donne: “Avete voluto la parità dei diritti, avete cominciato a scimmiottare l’uomo, vi siete messe voi in questa situazione, e allora ognuno raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza fosse rimasta a casa, non sarebbe successo niente.” Oggi in strada si dice: se Desirée fosse rimasta a casa, non si fosse drogata, non fosse andata in quel posto così degradato, non sarebbe successo niente. Cos’è cambiato in questi quarant’anni?
E allora vediamo cos’è cambiato in questi anni.
La prima relatrice è la dottoressa Cristina D’Aniello, sostituta procuratrice presso la Procura di Ravenna, pubblica accusa nel processo di primo grado che ha condannato Matteo Cagnoni all’ergastolo per aver ucciso sua moglie Giulia Ballestri. La dottoressa D’Aniello ripercorre l’evoluzione della normativa relativa alla violenza sessuale, da reato contro la morale a crimine contro la persona. Ci ricorda che oltre al mutamento legislativo è importante, anzi fondamentale, il lavoro degli avvocati e dei giudici che riempiono di significato la legge e consentono l’evoluzione delle norme penali. La riforma del 1996 cambia il bene giuridico tutelato dalla norma penale che passa dalla considerazione morale pubblica che aveva la sessualità della donna, alla donna come essere umano. La donna è diventata un essere umano solo nel 1996! Spesso lo dimentichiamo, anche noi studiosi e studiose di diritto, ma parliamo del 1996! Vent’anni fa! Ma d’altra parte nel nostro codice penale erano anche vigenti il delitto d’onore e il matrimonio riparatore fino al 1981! Con la riforma del 1996 si è voluta finalmente tutelare la persona offesa dal reato, per evitare la vittimizzazione secondaria che si realizza proprio con le accuse che le vengono rivolte nel processo. Tuttavia quel tentativo di tutelare la vittima non è stato nei fatti raggiunto, perché nelle aule di giustizia si continua spesso a chiedere con quali modalità e in quale contesto è stata violentata la donna. Ci ricorda la dottoressa D’Aniello che la corruzione di minorenni, prima della riforma, escludeva la punibilità del fatto se il bambino fosse stato già “moralmente corrotto”. Ecco che riemerge la morale. La morale che deve essere quella di Maria Goretti affinché la violenza maschile sia punibile, non solo penalmente ma – aspetto culturalmente più importante – socialmente. Perché i pregiudizi, di cui siamo tutti pervasi, e di cui sono pervasi gli stessi amministratori della giustizia, continuano a perpetuare il concetto della donna moralmente ambigua, provocatrice. E la dottoressa D’Aniello dà lettura di una sentenza della Corte di Cassazione che segue questo stesso ragionamento di diminuzione della colpevolezza perché una ragazza violentata aveva già avuto rapporti sessuali… nel 2006! Per non parlare della famosa sentenza dei jeans. La legge è cambiata, quindi, gli strumenti per punire e reprimere i comportamenti violenti degli uomini ci sono. Ma ciò che ancora manca, spesso, è la cultura che consente una reale e corretta applicazione di quelle norme, che sia veramente rispettosa di metà della popolazione del Paese.
La seconda relatrice al convegno è la dottoressa Paola Di Nicola, giudice del Tribunale di Roma, autrice di due libri “La giudice” (2012) e “La mia parola contro la sua” (2018), che raccontano il ruolo delle donne nella magistratura e la forza dei tanti pregiudizi che ancora vivono nella nostra società. Ella, tra le altre cose, combatte da anni la faticosa battaglia linguistica per rendere visibili le donne anche in quei luoghi di potere da cui sono state per secoli escluse, e quindi rivendica l’importanza di declinare al femminile tutte le professioni – la giudice, l’avvocata, l’assessora, la prefetta, la consigliera – e non solo quelle delle tradizionali professioni femminili come la maestra e l’infermiera. Nessun uomo accetterebbe mai di definirsi infermiera!
Anche la dottoressa Di Nicola evidenzia che la nostra cultura dà sostanza alle norme processuali, e le difese degli avvocati, degli imputati e delle vittime, risentono, anzi sono piene di questa cultura. E ciò fa sì che il ruolo individuale sia determinante nell’interpretazione delle norme giuridiche. È così che le modalità difensive raccontate nel “Processo per stupro”, forse con un po’ meno sfrontatezza, continuano ad esistere nelle aule dei nostri tribunali. Se solo un terzo delle donne vittime di violenza denuncia, evidentemente i lavoratori del diritto una responsabilità ce l’hanno. La difesa è inviolabile, ma la modalità di difesa è scelta dagli avvocati ed è consentita dai giudici, attraverso le domande e attraverso le risposte; quindi si può scegliere come agire in aula, si può scegliere se far entrare o no nelle aule di giustizia i pregiudizi e gli stereotipi nei confronti della donna, che inevitabilmente appartengono a tutti noi, perché siamo stati cresciuti con quegli stereotipi, ma che possiamo – e dobbiamo – imparare a riconoscere e a rifiutare.
La dottoressa Di Nicola afferma che abbiamo tutti gli strumenti legislativi per combattere la violenza contro le donne, ma che lo Stato non li sa usare. O forse non li vuole usare. Forse perché tali norme (in particolare la Convenzione di Istanbul e la direttiva sulla tutela delle vittime) ci sono state imposte dall’Unione Europea? Forse perché i nostri parlamentari continuano a vedere il problema della violenza maschile sulle donne come un problema di sicurezza e non come un problema culturale.
Da un punto di vista, per esempio, procedurale, un principio fondamentale della Convenzione di Istanbul è impedire la vittimizzazione secondaria, e per far questo bisogna in primo luogo fare in modo che la vittima - anzi la persona offesa sopravvissuta - sia costretta a raccontare meno volte possibile quanto accaduto. Ma se noi abbiamo un giudice o una giudice che non conosce il ciclo della violenza, egli/ella non può comprendere come possa essere importante l’acquisizione anticipata della prova (quello che in linguaggio legale si chiama incidente probatorio atipico). La pratica, l’abitudine, fa sì che questi strumenti – utilissimi – non vengano utilizzati (o vengano utilizzati pochissimo). Per la Corte di Cassazione la testimonianza della persona offesa è sufficiente per giungere ad una sentenza di condanna; allora perché i giudici del dibattimento hanno bisogno di riscontri estrinseci come i certificati medici? Perché alle donne non si crede. Perché le donne inventano, esagerano, si approfittano. Allora non si può non riconoscere che c’è una radice culturale profondissima che invade la legge, che sovrasta la legge, lasciandola solo carta scritta. La giudice Di Nicola invita quindi a rendersi conto di questo, e chiede proprio agli avvocati e ai giudici di rendersi conto della pervasività della cultura e dell’importanza di scegliere in che modo lavorare.
L’avvocata Rosamaria Albanese del Foro di Ferrara delinea, infine, le caratteristiche del reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi, facendo innanzitutto notare che esso è inserito nel titolo dei delitti contro la famiglia e non contro la persona. E questo, ancora una volta, ci dice molto della concezione culturale su cui si fonda tale norma. La violenza intrafamiliare è il tipo di violenza maschile di gran lunga maggiore e più frequente, senza dimenticare la gravità della violenza assistita, cioè della violenza che subisce il figlio minore che spessissimo assiste alla violenza del padre nei confronti della madre. È la forma più frequente di violenza eppure è difficilissima, forse la più difficile, da far emergere a livello penale, da far riconoscere alle forze di polizia e ai tribunali. La donna non sempre viene creduta, viene considerata esagerata, quando non del tutto bugiarda, ci si ostina a collocare la violenza nel contesto conflittuale della coppia, e inoltre la donna che denuncia viene considerata debole ed incapace di curare i figli, mentre il padre maltrattante continua a mantenere i propri diritti nei confronti della prole. E dov’è allora il diritto dei figli a crescere in un ambiente familiare sereno? Queste riflessioni ben si collocano nel tempo del disegno di legge Pillon, che, tra le tante aberrazioni, propone di introdurre la mediazione obbligatoria come condizione di procedibilità della separazione in presenza di figli minori, cosa incompatibile con la normativa internazionale che giustamente esclude la mediazione nei casi di violenza.
Sosteneva l’avvocata Tina Lagostena Bassi nel processo di Latina, rifiutando il ridicolo risarcimento offerto preliminarmente dagli stupratori: “Noi donne riteniamo offensiva la prassi di portare una mazzetta per compensare la violenza subita. Il danno che una donna subisce per una violenza carnale è incommensurabile […] Noi chiediamo giustizia, noi vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia come donne. Chiediamo che anche nelle aule dei tribunali si modifichi quella che è la concezione socioculturale del nostro paese, si cominci a dare atto che la donna non è un oggetto. Nessuno di noi avvocati si sognerebbe di impostare una difesa per rapina così come si imposta un processo per violenza carnale. Nessun avvocato si sognerebbe di cominciare la difesa di un rapinatore dicendo che il gioielliere ha un passato poco chiaro, che ha commesso reati di ricettazione, che è un usuraio. Nessuno si sognerebbe di fare una difesa infangando la parte lesa. Se l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla donna? La vera imputata è la donna. Se si fa così è solidarietà maschilista. Così si ottiene che non si facciano denunce. Una donna ha diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di un difensore.”
A distanza di quarant’anni questa richiesta appare ancora più che valida.
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