Martedi, 06/07/2021 - Realtà parallele di violenze…e differenze (?): una riflessione.
di Tiziana Luise
Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ci sono stati episodi di violenza verso i detenuti, dopo che erano saliti sui tetti e avevano messo in atto una protesta durante la fase più critica dell’emergenza pandemica. L’episodio risale all’anno scorso, quando lo stare chiusi, in promiscuità, all’interno di quattro mura e/o sbarre poteva essere un temuto veicolo di contagio da Covid19.
Penso alle donne che, in quello stesso momento e per tutto il periodo del lockdown, sono state chiuse, anche loro, fra quattro mura domestiche in balia di uomini violenti. Compagni, partner, mariti, figli.
I video mostrano alcuni carcerati che vengono schiaffeggiati, presi a bastonate, insultati dagli agenti, dopo che la protesta è rientrata.
Scene andate in onda anche in molte case italiane, solo che al posto dei carcerati vi erano (e vi sono, tutt’oggi) le donne. Picchiate, vessate, stuprate da coloro che abitano con loro, in modo abituale, sistematico, ogni tot di tempo per le ragioni più banali: la cena che non è di gradimento a “lui”, un’asserita e accampata gelosia per una “simpatia” della donna verso l’uomo della porta accanto, una parola di troppo, uno sguardo torvo, il “muso” messo nel momento sbagliato, un improvviso “giramento di….” da parte di lui e la voglia di “sfogarsi” su di lei.
Nel carcere, a chi si è ribellato, dicono che sono state riservate umiliazioni, intimidazioni, violenze psicologiche.
Devono essere molto simili a quelle che le donne vivono e sentono ripetersi, da tanto tempo, magari fin da quando erano piccole, da diversi uomini. Frasi come “tu non sei niente”, “brutta cretina che non sei altro”, “vali meno di zero”, “sono io il padrone, tu sei solo una serva”, “ti ammazzo” etc. Solitamente, a quelle parole, se l’umiliazione verbale non fosse sufficiente, seguono le botte, l’aggressione fisica, i maltrattamenti.
Anche nel carcere dicono che siano volate bastonate.
Le donne le conoscono bene le bastonate, perché sono spesso anche loro dalla parte sbagliata dell’impugnatura, colpite da chi, anche senza, è comunque fisicamente più robusto e forte di lei. Per DNA, per quel cromosoma XY che lo rende più muscoloso.
Chissà se qualcuno di loro è “dentro” per maltrattamenti e violenza in famiglia, verso una compagnia, moglie, figlia, fidanzata. A cosa starà pensando ora? Ora che, dall’altra parte, dalla parte di chi subisce, c’è lui e non più lei. Empatizza? Capisce? Differenzia fra sé e l’altra?
Pura curiosità la mia, sapendo che la risposta è difficile che arrivi. Anche perché, se arrivasse, sarebbe indirettamente una sorta di “confessione” di un reato.
Sui giornali, telegiornali, social ne parlano tutti. Tutti a condannare quell’episodio in carcere. Tutti a invocare l’intervento del Garante per i detenuti. A interrogare il Ministro della Giustizia. “Ne sapeva qualcosa? E cosa ha fatto? Quali provvedimenti intende prendere? E i colpevoli? Verranno processati, licenziati, condannati?”. Le domande si susseguono e, come sempre, si alternano giustizialismo e garantismo a fasi alterne.
Le immagini sono registrate e quindi l’episodio carcerario non può essere archiviato semplicemente come una denuncia infrondata. Il video racconta e lo fa con valore di testimonianza-chiave.
Beati i carcerati, mi viene da pensare, che hanno un così forte e incontrovertibile testimone dalla loro parte!
Le donne, quando subiscono violenze, raramente possono contare sulle registrazioni dei vicini o dei familiari, sulla prontezza di spirito dei passanti che girano dei video, sulle riprese immortalate in foto, cellulari, social etc. A proposito, perché avviene questo, secondo voi? Voglio dire, come mai ci sono sempre così pochi filmati delle violenze contro le donne che pure farebbero una gran bella differenza nelle aule di processo ed eviterebbero la vittimizzazione secondaria o il non venire credute perché “è la sua parola contro quella di lui”? Tenetelo a mente la prossima volta e spargete la voce: quando vedete una donna vittima di abusi e violenze, improvvisatevi Fellini, Loach…o anche Bigelow, Coppola e Wertmüller (meglio!).
Mentre questi interrogativi si susseguono e i telegiornali mostrano le immagini registrate di almeno, parte, delle violenze in carcere, leggo: del caso di presunto stupro di una ragazza da parte del figlio di un noto politico italiano e dei suoi amici; del rom diciannovenne che ha violentato una donna di novanta che lo aveva precedentemente denunciato; dell’ennesimo femminicidio, questa volta all’Isola d’Elba (in Italia, la media dei femminicidi è di 1 donna uccisa ogni 3 giorni); della ricercatrice, esperta di volo spaziale e con il sogno di mandare in orbita una astronauta, che racconta di come in Italia abbia dovuto fare i conti con il pregiudizio di genere da parte dei suoi docenti.
E sto solo leggendo le notizie di oggi, 6 luglio 2021.
E mi viene il dubbio: ma se con riferimento a quello che è successo in carcere qualcuno parla di “tortura”, allora anche quello che subiscono le donne è tortura.
Perché, è indifferente “chi fa cosa”, privato cittadino o funzionario pubblico, quello che classifica l’atto è “quello che viene fatto”. Intenzione, comportamento e conseguenze.
Sicché la tortura è decisamente molto più presente fra noi. Ne avevamo sentore, ma ora (forse) abbiamo trovato la forza per dir(ce)lo.
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