La Donna del mese - Attivista, accademica e avvocata originaria del Sudafrica, è Special Rapporteur dell’Onu sulla violenza di genere
Silvia Vaccaro Lunedi, 22/02/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2010
Nel 2009 la CEDAW ha compiuto trent’anni. Elaborata nel 1979, rappresenta ancora uno strumento legislativo fondamentale contro la violenza di genere, piaga sociale dai mille volti. Nell’anno appena trascorso sono stati organizzati numerosi eventi in Italia per ricordare questa convenzione e per aumentarne la diffusione. Il 13 gennaio scorso, volendo mantenere alta l’attenzione sul tema della violenza sulle donne, si è svolto a Roma, presso la Casa Internazionale delle Donne, l’incontro tra alcune Ong e associazioni femminili e Rashida Manjoo, Special Rapporteur dell’Onu sulla violenza di genere. L’evento è stato organizzato dall’Associazione Nazionale dei Giuristi Democratici in collaborazione con la Fondazione Pangea. La Manjoo è un’attivista, accademica ed avvocato, originaria del Sudafrica, ed ha insegnato in molte prestigiose università americane, così come a quella di Città del Capo, e fa parte della rete di donne “Women living under Muslim Laws Network”. Figura di riferimento nella lotta alle discriminazioni e la violenza contro le donne, ha affrontato un dibattito aperto sulle politiche internazionali con particolare riferimento a quelle europea ed italiana, illustrando i fini e le modalità del suo mandato alle Nazione Unite, carica che esiste da 15 anni e dura tre anni (nel caso di Rashida dal 2009 al 2012), che possono essere rinnovati. Il suo compito principale è fare da punto di raccordo tra governi, associazioni di donne e ONG, nel coordinamento di politiche contro la violenza sulle donne. Quattro sono le mansioni assegnatele; in primis la stesura di un rapporto annuale inviato all’osservatorio sui Diritti Umani delle Nazioni Unite, che tenga conto dei notevoli punti di contatto tra la questione della violenza di genere e altre tematiche come la diffusione dell’HIV/AIDS, l’influenza dei credi religiosi, il dibattito sulle differenze di orientamento sessuale, le condizioni di lavoro, ecc…Proprio su questo ultimo punto Rashida ha affermato che si devono riconoscere i molti collegamenti tra la povertà e la violenza di genere. “Se ci domandiamo da dove viene la cosiddetta femminizzazione della povertà, possiamo rispondere che è il risultato di uno squilibrio tra i generi, di un iniquo diritto allo studio, di paghe diseguali, di una mancanza di opportunità per molte donne. La violenza e la povertà sono causa e conseguenza l’una dell’altra, in un circolo vizioso che non si arresta, se non con interventi sulle cause strutturali della violenza, che toccano indubbiamente i sistemi macroeconomici.”
Rashida ha poi raccontato delle sue missioni all’estero, ad esempio quella in Kurdistan nel novembre del 2009 e della difficoltà di ottenere il permesso per entrare nel paese a investigare sulla condizione delle donne autoctone, raccontata in un rapporto breve. La terza mansione è legata a violenze particolarmente gravi ai danni di donne per cui mobilitarsi con delle segnalazioni speciali. In ultimo, Rashida è chiamata a collaborare con la società civile, organizzando incontri in cui si discuta delle misure da prendere contro la violenza, che ha definito “un fenomeno pervasivo, che tocca tutte le società” in cui “spesso non fa differenza il colore, l’età, o la condizione economica, qualsiasi donna è una potenziale vittima di violenza, in particolare tra le mura domestiche.” Nonostante la portata del fenomeno sia enorme, tanto da annientare spesso ogni tentativo di fermarlo, Rashida ha ribadito l’importanza dell’impegno e di un piano di intervento che comprenda cinque punti chiave: l’adozione di leggi nazionali, l’attuazione di piani multi-settoriali con cospicue risorse da investire nella prevenzione, la raccolta e l’analisi dei dati relativi alle violenze, l’attuazione di campagne di sensibilizzazione, in grado di sollecitare il coinvolgimento dell’intera società civile garantendo sostegno alle vittime e infine gli sforzi costanti e specifici per contrastare la violenza sulle donne in situazioni di conflitto. E riferendosi all’Italia, ha ricordato la questione dell’immigrazione e delle difficoltà enormi a cui vanno incontro le donne migranti, lasciate sole e nei casi più gravi (ma piuttosto frequenti) criminalizzate a seguito delle denunce esposte.
La Manjoo infine si è soffermata sull’incapacità di un organismo internazionale come l’ONU nel risolvere gravi questioni, spesso a causa della mancanza di collaborazione da parte degli stati membri. Da qui la necessità di una doppia strategia: da un lato il mainstreaming di genere e dall’altro l’analisi dei casi specifici. L’attivista sudafricana ha posto, infatti, l’accento sulle differenze tra culture e sull’eterogeneità dei processi di emancipazione nelle varie regioni del pianeta, prendendo come esempio la realtà africana. “Le donne del mio continente sono rappresentate in maniera impropria dai mass media, eppure ce ne sono alcune che sono in grado, pur seguendo la tradizione ancestrale, di battersi per i diritti che ritengono giusti e fondamentali. Non si deve pensare che ci sia un modello giusto da seguire, rappresentato dal modus vivendi delle donne occidentali. Molte di noi, donne africane, rimangono legate alla cultura del villaggio pur sfidando il patriarcato.” Il nostro breve incontro si è concluso con un pensiero di Rashida sulle cause più intime della violenza, che trovano radici nella considerazione dell’altro (spesso sinonimo della donna) non come elemento di confronto bensì come parametro da cui discostarsi e contro il quale far valere la “ragione del più forte”.
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