Roma. Con l’organizzazione di Corrente Rosa, la Casa Internazionale delle Donne ha ospitato l’incontro tra Virginija Langbakk, direttora dell’European Institute for Gender Equality (EIGE), e la società civile, rappresentata dalle organizzazioni per la promozione dei diritti umani, ONG, associazioni delle donne e coordinamenti sindacali. La Langbakk, nella Capitale in occasione del semestre europeo, ha esposto l’ultimo rapporto dell’Unione Europea sui dodici punti di crisi del Programma di Azione. Questo il programma su cui gli Stati si impegnano dal 1995, anno della IV Conferenza mondiale sulle donne dell’Onu a Pechino, che individua le dodici aree di crisi considerate come i principali ostacoli al miglioramento della condizione femminile. Da allora, ogni cinque anni i governi si impegnano a presentare all’Onu un rapporto relativo alla parità di genere e alla condizione delle donne nelle rispettive situazioni nazionali. Nel giugno 2014 il Dipartimento delle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha inviato all’ONU il rapporto riguardante il periodo 2009-2014. Tuttavia, e nonostante le indicazioni previste dalla stessa Piattaforma di Pechino, il rapporto italiano è stato redatto escludendo le organizzazioni e le singole esperte della società civile. Con la conseguenza di presentare un’analisi ben diversa rispetto a quanto è quotidianamente vissuto e compreso da chi lotta contro le discriminazioni di genere.
È la stessa Langabakk a riconoscere la necessità che i monitoraggi ufficiali lavorino insieme alle organizzazioni civili. Non solo perché questo consente un approfondimento dei dati ma perché aiuta a comprendere il contesto, culturale e non solo, che le statistiche di per sé non permettono di cogliere. Allora un coordinamento tra i programmi istituzionali e le organizzazioni dal basso non deve essere eluso: completa le prospettive e ricorda come dietro ai dati si collochino donne e uomini non riconducibili a soli schemi astratti. In questo senso, e come ha ricordato la vicepresidente di PangeaSimona Lanzoni, “i rapporti ombra non devono fare paura. Costituiscono una ricchezza per la democrazia. Le istituzioni devono comprendere la necessità della loro integrazione con le statistiche e i monitoraggi ufficiali”.
I dati presentati dall’EIGE (relativi a Donne e povertà; Istruzione e formazione delle donne; Donne e salute; Violenza contro le donne; Donne e conflitti armati; Donne ed economia; Donne e processi decisionali; Meccanismi istituzionali per il progresso delle donne; Diritti umani delle donne; Donne nei media; Donne e ambiente) testimoniano alcuni avanzamenti in determinati campi di indagine: negli stati membri si registra, per esempio, un aumento dei corsi di sensibilizzazione verso la prevenzione della violenza di genere, con una attenzione particolare rivolta all’intervento sugli uomini violenti. E si nota, ancora, un aumento di corsi professionali e dibattiti relativi a una corretta rappresentazione delle donne nel linguaggio dei media. Questo non esclude, ovviamente, una disparità di genere presente su molti e diversi livelli. Oltre alla disparità economica, per esempio, sono poche le donne che occupano posizioni decisionali. Un caso indicativo: nonostante si sia registrato un aumento del 44% delle donne impiegate nei media, solo il 32% occupa le top positions.
Il Rapporto Ombra, le cui autrici sono intervenute nel corso del dibattito, è la redazione di un autonomo rapporto Pechino 2009-2014 – promosso da organizzazioni per la promozione dei diritti umani, associazioni delle donne, ong, coordinamenti sindacali e singole esperte di genere – che dimostra come il quadro presentato all’ONU dal Governo italiano rappresenti parzialmente l’effettuale realtà vissuta dalle donne. E ciò è dovuto anche a una carenza nella raccolta dei dati e delle statistiche di genere, lacuna che conduce a un monitoraggio incompleto proprio per aver escluso l’intervento delle organizzazioni non governative.
Il Rapporto chiarisce come, nonostante si siano osservati alcuni cambiamenti relativi alla parità, le iniziative promosse dal Paese non sono sufficienti per la promozione dell’uguaglianza di genere. E questo è evidente su diversi livelli di esperienza. Dagli interventi insufficienti per la tutela della salute, dei diritti sessuali e riproduttivi, all’elevato livello di povertà femminile, in particolare nelle famiglie monoparentali, l’intervento istituzionale si è mostrato inadeguato difronte a una realtà sociale che accresce il gender gap. Un evidente esempio dell’inadeguatezza è costituito, come sottolinea Titti Carrano, dagli insufficienti interventi statali di prevenzione alla violenza di genere. Manca una legge organica che si fondi su un’analisi condivisa del fenomeno: la sua assenza comporta la definizione della violenza solo come emergenza, il che impedisce una significativa prevenzione.
In questo senso, un significativo passo in avanti potrebbe essere rappresentato da una rinnovata relazione tra i monitoraggi ufficiali e le organizzazioni della società civile, tra loro differenziate per esperienze e competenze. Una riformulazione dei dati statistici potrebbe costituire il necessario epifenomeno per un intervento politico efficace e in grado di colmare il gender gap.
Lascia un Commento