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Ragazze : la vita …trema

Ragazze : la vita …trema

A tutto schermo - Storia e memoria di un’epoca nel bel documentario di Paola Sangiovanni presentato a Venezia

Colla Elisabetta Martedi, 10/11/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2009

Chi non conosce la canzone di Francesco De Gregori dal titolo “la storia siamo noi”? È proprio a questo verso che viene da pensare guardando lo splendido film-documentario “Girls, life is trembling”, sulle lotte e le conquiste degli anni 1967-1977, scritto e diretto con grande intensità dalla regista Paola Sangiovanni (già autrice di ‘Staffette’), prodotto con passione e coraggio da Laura Cafiero della Metafilm (produttrice di opere quali ‘Tu devi essere il lupo’ e ‘Fine pena mai’) e selezionato alle Giornate degli Autori al Festival di Venezia. Partendo dalla intensa narrazione di quattro vite di donne “come tante” (in realtà Liliana Ingargiola, Alessandra Vanzi, Marina Pivetta e M.Paola Fiorensoli, sono donne piuttosto fuori del comune, che hanno attraversato la vita e la storia con grande impegno in ambiti politici, culturali e artistici), il documentario descrive, con uno stile personale e poetico, un’epoca vitalissima di metamorfosi generazionali e di conquiste sociali e femminili senza precedenti, che provocarono scosse profonde ed irreversibili alla società civile italiana, coinvolgendo donne e uomini in una febbrile partecipazione collettiva in ambiti come l’autodeterminazione sessuale, l’aborto e la contraccezione, il divorzio, la parità sul lavoro, ecc. Anche Noidonne è stata protagonista di quella feconda stagione, come ci racconta la regista stessa.



Come hai selezionato le protagoniste del tuo film?

Conoscevo già Alessandra - attrice e cofondatrice del gruppo la Gaia Scienza - e poi ho incontrato una ventina di donne, circa un anno prima di fare le riprese. Marina e Liliana le ho contattate tramite Marisa Ombra, la protagonista del mio precedente mediometraggio Staffette, attiva nell’UDI ed in Noidonne negli anni Settanta: cercavo persone che non avessero nomi “famosi” o ingombranti, e non fossero figure troppo ideologiche, ma donne con storie significative disponibili a mettere in comune la propria esperienza di vita., cosa che le protagoniste (emerse poi quasi naturalmente) hanno fatto con estrema generosità e disponibilità, regalandomi il proprio tempo ed il racconto delle proprie vite senza remore, dando un’immagine non codificata di sé: sono donne molto vitali, con un grande e profondo sentimento nei confronti della vita, che mi ha molto arricchito. Ho usato un metodo elaborato nel lavoro precedente, quello di entrare con loro in un contatto profondo e fuori dagli schemi, per mettere in circolo idee e sentimenti. Inizialmente c’erano altre donne nel film, poi ho operato un’ulteriore selezione, ma tutte le interviste e gli incontri sono serviti per l’elaborazione del documentario e mi hanno fornito strumenti di studio per affrontare un periodo estremamente complesso dal punto di vista storico-politico.



Come e quando hai deciso di fare la regista, e perché un documentario su questo periodo?

Il mio percorso rispetto alla regia è stato molto “femminile”: sono sul set da quando avevo 20 anni, mi sono laureata in Storia e Critica del Cinema con Guido Aristarco ed ho assimilato i suoi insegnamenti sul cinema come strumento di educazione alla realtà che ci circonda ed alla fascinazione e passione continua per questo sguardo sul reale. Ho iniziato come assistente alla regia, aiuto regista al cinema e in TV e come segretaria di edizione ho lavorato in tantissimi film, dirigendo corti e lavori di video-arte, ma ho impiegato tanto tempo a dire a me stessa “voglio fare solo questo”, ad autorizzarmi a fare solo la regista, a quarant’anni ho deciso “adesso basta”, per questo lo considero un percorso femminile, perché le difficoltà delle donne sono molto sottili. D’altra parte ho imparato il valore di questo mestiere difficilissimo, che richiede disciplina e dedizione. Così ho fatto ‘Staffette’, un mediometraggio sulla memoria, partendo dalla mia esperienza personale e rivisitando i luoghi in cui mia madre aveva fatto la resistenza in Piemonte. Ho sentito il desiderio di raccontare la storia attraverso esperienze personali di donne, perché ho trovato fosse più rilevante ed illuminante, per me, lo sguardo delle donne “qualsiasi” attraverso il quale attraversare la narrazione storica. In questo Paese essere registi è molto faticoso, è una sorta di esperienza estrema, per chiunque ma per le donne è più difficile, è qualcosa di sottile ma per la mia lunga esperienza di lavoro nel cinema posso dire che è così, posso essere tacciata di veterofemminismo, vittimismo, ideologismo detto ciò la questione è capire cosa può significare il cinema per noi, non usarlo a sproposito, ma come forma di espressione legata alla vita, al nostro stare nel mondo.



Perché questo periodo e quali scelte tecniche hai fatto per raccontarlo?

Amo molto il documentario perché c’è spesso dietro una ricerca, io non credo alle opere che hanno una tesi da dimostrare, io qui non l’avevo, ma sentivo la necessità di proseguire un discorso più vicino ai miei anni, e che fosse anche un punto nodale per la storia di questo Paese, ed il ‘68 e gli anni Settanta lo sono. E’ un’esigenza molto forte per me, nel presente, portare avanti un lavoro sulla memoria, e nel film non racconto solo le donne ma un pezzo di storia che riguarda uomini e donne. Il materiale di repertorio, che costituisce l’80% del film, era difficile da scegliere perché la materia è molto complessa dal punto di vista storico, politico, personale: per questo ho voluto dare al film un impianto abbastanza semplice e tradizionale piuttosto che sperimentale, alternando sequenze di donne sedute davanti alle telecamere che parlano di sé, con materiali di repertorio, mentre ho trasferito una parte stilisticamente più personale nell’elaborazione del suono e nella scelta del montaggio. Il materiale di repertorio è frutto di una lungo lavoro di ricerca su fonti provenienti da archivi privati e pubblici, in cui le sequenze già viste sono state rimontate e rinsonorizzate in modo nuovo e questo è un lavoro che pretende una certa attenzione.



Che ruolo assume la musica nel film?

Credo che le canzoni scelte diano un tocco personale: oltre ai due pezzi di De André tra i meno noti (dall’LP intitolato Tutti morimmo a stento del 1971), uno usato su immagini in Super8 degli anni ‘60 (Secondo intermezzo) e l’altro (Inverno) in accompagnamento alla lunga sequenza del funerale di Giorgiana Masi nel ’77 (sequenza quasi visionaria e simbolica, espressione di tutta una storia della sinistra italiana che se ne sta andando via., e dal b/n si passa al colore), ci sono brani della PFM e di Nada (Ma che freddo fa) oltre alla musica originale di un giovane compositore (Giorgio Giampà, 26 anni). E’ stato importante avere collaboratori giovani come Nicola Moruzzi (montaggio), Eleonora Patriarca (fotografia), Marzia Cordò, Daniela Bassani e Stefano Grosso (montaggio del suono).



(10 novembre 2009)

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