Dalla fabbrica al teatro - L’idea, la necessità dello spettacolo è stata suggerita dalla visita ai luoghi della tragedia
Mirella Caveggia Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2008
Nel suo studio scenico intitolato “La menzogna”, Pippo Delbono, rude e sensibilissimo uomo di teatro, muove un’accusa gonfia di indignazione e di dolore all’alterazione e all’abbandono della verità, all’ipocrisia ovunque accolta e praticata.
Lo spettacolo, che ha debuttato alle Fonderie Teatrali Limone di Moncalieri in apertura della stagione dello Stabile torinese, al suo avvio nel silenzio richiama l’atrocità del sacrificio dei sette operai della ThyssenKrupp arsi vivi, evocandone anche visivamente lo strazio. È stata proprio la visita dell’attore e regista ligure alla fabbrica dove si è consumata la tragedia a suggerirgli con il suo squallore, le sue tracce di inerzia e di abbandono la traccia della rappresentazione: un disegno circolare che da quel luogo di solitudine e di assenza di comunicazione dilata il suo raggio, ingloba l’esterno per poi richiudersi dopo avere stretto nella sua morsa accusatoria frammenti dell’enorme inganno che ha accecato il mondo. Ne emerge il quadro frantumato di una realtà spietata, marcia, senza bagliori di umanità, che sommerge quelli che non hanno mezzi e difese, i diversi, i poveri, i malsani, a cui è negato di vivere con dignità. L’inizio di questo spettacolo dalla crudeltà esplicita, circoscritto in una griglia di ferro e investito di un grigiore impenetrabile, è di una lentezza precisa ed estenuata nel suo andamento quasi coreografico. In due piani separati pone a confronto due mondi inavvicinabili, entrambi senza luce: quello soffocante di un operaio sempre al buio il suo turno davanti al proprio armadietto e quello prevaricante dei potenti, illuminato da una luce sinistra, dominato dall’abuso e dalla corruzione, dove il vizio occultato nasconde in ben altri armadi scheletri impresentabili. Il concorso della pubblicità con la sua ingannevole lucentezza sottolinea con un cinismo che imbarazza la distanza incolmabile fra l’onnipotenza dei sopraffattori e la disperata rassegnazione di chi non ha voce, né riscatto, né libertà.
Pippo Delbono con questo suo groviglio inestricabile di immagini, di simboli e di musiche, segno della scalata solitaria e impervia di questa sua ultima, straordinaria, commovente fatica, esprime l’inesprimibile. Forse non intende neppure comunicare o convincere, forse vuole solo lasciare erompere il proprio dolore davanti a un mondo che non riesce neppure più a nascondere lo sfacelo che lo ha sfregiato. Insieme all’ottimo Gianluca Ballaré libera emozioni compresse fino allo spasimo: con un pianto sommesso o con urla di ribellione, fra esplosioni di rabbia incontenibile e contorsioni. Il suo passo dapprima rapido e autorevole di narratore fuori campo si farà andatura dimessa e strascicata quando alla fine, denudato e definitivamente sconfitto, si lascerà risucchiare dal buio, condotto per mano da Bobò, un mite essere minorato, incapace di parlare e di udire, che dopo 35 anni in un manicomio criminale, è entrata a far parte della compagnia. A lui, simbolo di affrancamento dalle vischiosità menzognere, di innocenza e di libertà. sono andati applausi sonori che il suo udito non ha colto. Ma il suo sorriso felice ha detto grazie anche a nome degli ultimi e dei penultimi a cui il grande Pippo Delbono ha dedicato questo spettacolo audace, energico e crudele atteso in una lunga tournée in Italia e all’estero. (Foto di Rhodri Jones)
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