Reggio Emilia/ Donne migranti - Lo studio della cooperativa “LeNove” sul tema dell’Interruzione volontaria della gravidanza nelle donne migranti e nelle donne italiane
Maria Merelli e Maria Grazia Ruggerini Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2005
Se è vero che l’interruzione volontaria di gravidanza è in tendenziale aumento fra la popolazione immigrata, ciò è dovuto all'aumento dei flussi migratori e alla progressiva femminilizzazione o a ragioni specifiche che spingerebbero le donne straniere ad essere più propense all’aborto delle donne italiane? A queste domande ha cercato di rispondere lo studio promosso dalla Provincia di Reggio Emilia, dalla Ausl di RE e dal Comune di Bagnolo in Piano diretto da M. Merelli e MG. Ruggerini di “LeNove-studi e ricerche” (Carocci, 2005), per ipotizzare alle operatrici e agli operatori socio sanitari dei servizi adeguate proposte di prevenzione della Ivg.
L’analisi statistica dei dati (raccolti su scheda Istat e forniti dalla Regione Emilia-Romagna ) relativi agli andamenti Ivg 1999-02 nella provincia, hanno confermato la crescita (dal 23,7% al 28,5% sul totale) degli aborti praticati dalle donne migranti, sia dalle residenti con permesso, che irregolari e clandestine. Tuttavia negli stessi anni il tasso di abortività, per effetto del notevole aumento delle migranti, è in diminuzione e per il 2002 esso è stato stimato del 29,5 per mille, circa il triplo, tuttavia, di quello delle italiane.
Quali allora le principali ragioni individuate (tramite ricerca sul campo e interviste dirette)? Intanto i comportamenti vanno visti in relazione alle differenze culturali delle diverse aree di provenienza: di lì spesso si determinano condizioni specifiche, materiali, del processo migratorio che tendono a determinare assieme a usi e valori, le scelte sul piano procreativo. I dati (statistici) infatti ripropongono, in tutti gli anni considerati, la maggiore propensione all’interruzione di gravidanza da parte di donne provenienti da determinate aree, soprattutto dagli stati dell’Europa dell’Est, dell’Africa centro-occidentale, massime la Nigeria, del Maghreb; in misura minore dalla Cina, dall’area indo-pakistana e latinoamericana (cfr. grafico). Se circa un terzo non è coniugata e non ha figli, per circa il 70% si tratta di donne coniugate, oltre i 30 anni, con uno o più figli, anche se per una parte di loro (cinesi e donne dell’Est soprattutto) vivono lontani. La scelta di interrompere la gravidanza è pressoché sempre l’esito finale di una situazione di difficoltà che parte prima di tutto dalle condizioni materiali tipiche dell’immigrazione: le difficoltà economiche (mancanza di lavoro, precarietà, pesantezza) sono naturalmente in primo piano (44% delle intervistate) insieme alla insicurezza della mancanza di permesso di soggiorno; per una metà l’avere già il numero dei figli desiderato (o ritenuto possibile); o l’avere una relazione affettiva instabile che non dà fiducia (9%). Questione centrale è apparsa pertanto quella delle pratiche contraccettive che stanno a monte della interruzione: sia il fallimento del metodo contraccettivo (19%) o una cattiva gestione dello stesso (ad es mancata assunzione della pillola, 4%), ma soprattutto la mancanza di contraccezione: o per presunta infertilità (35%) o per scarsa abitudine e cultura contraccettiva (27%), ma talvolta anche per un desiderioimposizione del partner (9%). Una assenza di contraccezione che spiega come un terzo di loro (il 33% nel 2002) avesse già alle spalle uno o più aborti precedenti (cfr. grafico).
Sono soprattutto le storie di vita che mostrano le costruzioni di senso soggettive, rendendo trasparente il complesso intrecciarsi di cause che sottostanno alla decisione di abortire, collocandola in un percorso riproduttivo e contraccettivo di anni: dove aspettative di vita migliore si coniugano con le difficoltà materiali, le speranze frustrate, le difficoltà di accedere a una contraccezione sicura e tollerata nel tempo. Così l’instabilità rafforza l’abitudine a pratiche non sicure (molte cinesi in Italia tolgono la spirale, altre abbandonano la pillola), lasciando aperta la decisione al “dopo”.
Tuttavia, più della metà delle straniere si rivolge al consultorio pubblico per la certificazione e ciò sostiene la proposta di mettere al centro delle “azioni positive” per la prevenzione la messa a punto di un percorso personalizzato prima/post IVG fra servizi territoriali e ospedale e la consulenza contraccettiva. Ma occorre soprattutto rafforzare l’empowerment delle donne migranti e quindi la capacità di legittimare a se stesse, e nella negoziazione col partner, salute, sessualità e desiderio di maternità. Un terreno, quello del corpo e della salute riproduttiva, di nuovo centrale anche per le donne italiane sul quale possono oggi prodursi relazioni nuove tra le une e le altre.
Lascia un Commento