A tutto schermo - Carcere e drammi familiari nel bel lungometraggio di Alessandro Angelini
Colla Elisabetta Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2007
E’ sempre molto alto, per i tanti registi che si cimentano con le tematiche carcerarie, il rischio di scivolare nei luoghi comuni di genere, basati sulle dicotomie ambientali classiche (buoni e cattivi, detenuti e guardie carcerarie, illegalità e redenzione, giustizia e drammatici vissuti esistenziali) o tendenti ad inclinare verso i lacrimosi pendii del melodramma. Ma il giovane ed impegnato regista Alessandro Angelini, già assistente alla regia di Moretti e Calopresti (dopo una lunga gavetta nel mondo del cinema), non è caduto nella trappola: L’Aria Salata, suo primo lungometraggio presentato in concorso alla Festa del Cinema di Roma ed ora nelle sale, è davvero un film ben riuscito, equilibrato e crudo nel suo destreggiarsi fra sentimenti inespressi, privazioni di libertà esteriori ed interiori, solitudini e riavvicinamenti, relazioni familiari irrimediabilmente spezzate. Già autore di documentari a sfondo sociale come “I ragazzi del Ghana" (storia di due ragazzini che lasciano l’Africa per cercare fortuna come calciatori professionisti) e “La Flor mas linda de mi querer” (sui progetti di recupero delle ragazze di strada in Nicaragua), Angelini ha avuto un’esperienza di volontariato nel carcere di Rebibbia, dove si svolge l’azione del film: “Per i detenuti - dichiara il regista - è costante il pensiero verso i familiari che, a modo loro, scontano anch'essi la condanna: questo concetto è stata l'idea di partenza. Per mesi, insieme ad Angelo Carbone (il cosceneggiatore), abbiamo frequentato educatori, agenti di custodia, ex-detenuti, focalizzando l'attenzione verso gli stati d'animo più che sugli aneddoti della vita in prigione”. Il film infatti si caratterizza non solo per la descrizione della vita detentiva, pure ben delineata, ma soprattutto per la forza, da un lato intima dall’altro espressamente dichiarata e anzi gridata, dei sentimenti familiari, reali, desiderati o rimpianti: il protagonista, Fabio (interpretato da un severissimo Giorgio Pasotti) fa l’educatore a Rebibbia, ama il suo lavoro e cerca di aiutare i detenuti attraverso opportunità di reinserimento lavorativo, oltre che di recupero delle relazioni socio-familiari, anche favorendo la concessione di permessi premio, previsti dalla legge ma ottenibili soltanto dopo adeguata osservazione della personalità e del comportamento in carcere. Ruolo chiave gioca nella vita di Fabio la sorella maggiore Cristina (una brava Michela Cescon), cassiera in un supermercato, la quale lo ha mantenuto agli studi svolgendo la funzione di capo-famiglia ed insieme di madre, dopo la scomparsa prematura di quella naturale. I due fratelli, legati da un affetto intenso ed esclusivo, condividono il segreto di un padre omicida che li abbandonò da piccoli, senza mai voltarsi indietro, dopo aver commesso il delitto. Un giorno, fra i tanti nuovi arrivi giornalieri nel carcere romano, si siede al colloquio Luigi Sparti, condannato a trent’anni per omicidio, di cui già venti scontati, smaliziato ed impenitente rispetto al reato commesso. Fabio lo riconosce, è suo padre: tutta la sofferenza dell’abbandono lo investe e lo travolge, ed il tentativo di mantenere una veste professionale verrà spazzato via dall’urgenza di un confronto che non concede sconti e che si rivelerà durissimo e senza scampo per entrambi. La sorella, che attende un bimbo, con un istinto di conservazione quasi primordiale, non vuole neppure vedere il padre, l’odio e l’assenza sono definitivi, ma per Fabio non è così semplice. “La storia - afferma Angelini - si svolge in un penitenziario ma si focalizza sull'esterno, su una famiglia spezzata che cerca di capire come recuperare un rapporto: mentre Fabio tende a perdonare, la sorella non ha alcuna intenzione di ricreare il legame, sta per diventare mamma e pensa al futuro, non vuole far tornare i fantasmi del passato. Per il padre era importante creare un personaggio indurito da una vita difficile, che si era dimenticato della famiglia: l'ambientazione estremizza i problemi e le relazioni”. La macchina da presa accompagna volti e sentimenti con grande abilità, partecipazione e realismo, talvolta sgranando il fotogramma alla maniera documentaristica, talaltra mantenendo una cifra cupa anche negli esterni, quasi a sottolineare i temi e le atmosfere. Un eccezionale Giorgio Colangeli (attore romano che ha lavorato molto in teatro, vincitore con questa interpretazione del premio per il miglior attore alla Festa del Cinema di Roma), qui nel ruolo del padre detenuto, riempie le scene dei suoi primi piani espressivi, ironici e dolenti. Ad Angelini si perdonano anche alcune piccole sbavature, tanto la sua motivazione arriva con forza quando parla di un cinema che sa leggere i tempi e della sua idea di giustizia, conciliativa e non solo punitiva.
(2 febbraio 2007)
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