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QUEL CHE SI CELA NELLA QUESTIONE “BURKINI”

QUEL CHE SI CELA NELLA QUESTIONE “BURKINI”

BURKINI SÌ, BURKINI NO E OCCHI CIECHI DI STATO / Lettera aperta a Parlamento e Governo

Lunedi, 22/08/2016 -
L’esplosione del caso burkini, portando allo scoperto ideologie, contraddizioni e qualunquismi infantili, genera riflessioni sul da farsi. Ho già scritto in precedenza sul tema, ma trovo necessario ritornarvi.



Alcuni articoli apparsi sul web e taluni interventi su FB hanno sottolineato il fatto che non sempre il velo è imposto dalle famiglie e che spesso si tratta - almeno in Europa - di un fenomeno di ostentazione identitaria, con cui le giovani generazioni di donne, figlie di immigrati e/o di immigrate, esprimono il loro rifiuto di una società occidentale che non le convince.



Giusta osservazione. Solo che, invece di richiedere ai nostri rappresentanti della politica o alle donne e agli uomini di governo che si modifichino certe situazioni nostrane, se ne deduce in genere con qualunquismo estremo che non si debba far niente, in nome di una suprema libertà di aderire a questo o a quel condizionamento.

Anni e anni di studi psicologici sul linguaggio del corpo, sulla comunicazione non verbale, sui messaggi trasmessi con le immagini, vanificati con un colpo di spugna che lascia del tutto irrisolti i problemi.



Non trovo dissennate le misure adottate dai sindaci francesi, che hanno visto i loro luoghi ricoprirsi di sangue e che nell’adozione di talune uniformi da shari’a individuano una messa a rischio della serenità che dovrebbe regnare nelle spiagge.

Non risolvono, ma è falso affermare che si stia obbligando le donne musulmane a restare a casa. Delle due l’una: o è vero che quei costumi sono una scelta soggettiva delle giovani donne musulmane, oppure si tratta di obblighi imposti da padri e/o mariti padroni e non di scelte personali. Probabilmente si tratta di un fenomeno misto.



Giusti o sbagliati che possano apparire i divieti francesi, con essi si sta dicendo di no a un costume-divisa da portare in spiaggia e non alle donne, le quali dunque nel primo caso indicato potrebbero andarci ugualmente, vestite in modo meno radical-fondamentalista. Se per manifestare la propria identità qualcuno andasse in giro con una fascia con svastica sul braccio, lo troveremmo passibile di accettazione in nome di una qualche libertà?

“Ma allora non le fanno andare in spiaggia!” ci commuoviamo subito, cuore materno in mano, trafitto da strali di sorellante passione. Con ciò si sta però negando che sia una decisione delle donne e si sta dando forza all’idea che si tratti di imposizione maschile e dunque di prevaricazione bella e buona, che si finisce con il consolidare avallandola.

Come al solito abbonda il qualunquismo e difetta di molto la coerenza.



L’Italia però non è come la Francia, almeno sino ad ora. Noi non abbiamo da piangere morti di quella tipologia sul nostro territorio, né da temere sommosse popolari reattive; possiamo dunque non vietare il burkini pur non condividendolo affatto. Non così il burqa totale o con soli occhi scoperti. 



Non molto tempo addietro ho visto una coorte di donne "imburqate", con i soli occhi a vista, capitanate da un uomo - una volta tanto parzialmente bardato anche lui e non in freschi calzoncini e maniche corte - che attraversavano seri, composti e in nero una via cittadina per entrare in un bar. Non in Marocco, Tunisia, Algeria, Arabia Saudita o altri Paesi da noi distanti, no; accadeva nella via Dante di Milano. Con tutta probabilità continua ad accadere, benché non mi sia più capitato di incrociare una folta processione come quella.



Non è affatto vero che donne col burqa ce ne siano in giro molto poche, come sembra ritenere il ministro Alfano, come non è affatto vero che il rifiuto del burqa, totale o lievemente parziale, sia motivato SOLO da un’incompatibilità di “valori”.

Esiste un problema di sicurezza che non può venire ignorato, dato che sotto un burqa può nascondersi chiunque, che sia musulmano o meno, per commettere qualsiasi crimine senza essere identificato. Chi non si rende conto di questo mente a se stesso e alla comunità, applica un altro tipo di burqa al suo cervello, quello che viene comunemente definito con la frase “avere il prosciutto sugli occhi”.



Le disposizioni attuali permettono di aggirare il problema, in quanto basta che a richiesta di qualche autorità la donna irriconoscibile sollevi il velo, per non incorrere nelle sanzioni previste. Il che significa che, se un qualsiasi individuo - ripeto, musulmano o no - si nasconde sotto un burqa per commettere un crimine, i cittadini non avranno nemmeno la possibilità di offrire una testimonianza utile agli organi di polizia, al di là di un “era alto”, “era basso”, “era magro”, tralasciando l’eventuale “era grasso" dato che qualunque imbottitura è invisibile sotto manti coprenti come quelli. E ciò significa che chiunque, maschio o femmina, sia intenzionato a delinquere dispone a priori di un lasciapassare per la propria impunità, che può solo incrementare i crimini e di sicuro non ridurne il numero.

Per non parlare dell’ostacolo all’integrazione, su cui sta cominciando a riflettere Angela Merkel e che è un problema reale. Chi si veste con burqa e nikab sta dichiarando apertamente di chiudersi da sé in un mondo a parte, di non volersi rapportare con gli altri, di escludere qualsiasi interazione. Per volontà personale o indotta, poco cambia. Con questo siamo però in un altro campo, che non è più quello della sicurezza.



Parliamo allora del processo di integrazione.

Dando per scontato che il divieto del burqa sia da introdurre senza scappatoie possibili nella nostra legislazione, vorrei però soffermarmi su qualcos’altro e cioè sull’incompatibilità dei valori.

È verissimo, si tratta di valori incompatibili ma… principalmente sulla carta. Nei fatti è abbastanza improbabile che le giovani donne musulmane che decidano spontaneamente di coprirsi, o che ne siano in qualche modo obbligate, possano riconoscere come rispettosi delle donne una serie di fatti e di messaggi che in Italia le attorniano sistematicamente ogni giorno.



In un gruppo FB c’è stata una discussione sul modo di affrontare questa desiderata “conversione” di giovani musulmane pesantemente ammantate, inducendole con un articolato dialogo a rispettare talune regole del Paese in cui vivono. Già una formulazione di questo tipo prevedendo un itinerario a senso unico appare abbastanza discutibile, ma lascio ciò all’intuito di chi legge per non trovarmi a scrivere un trattato.



Si è discusso in sostanza di approntare tavoli per l’incontro e il dialogo con queste donne. A parte il fatto che non vedo nessun progetto parlamentare - se c’è e mi è sfuggito qualcuno me lo segnali e gliene sarò molto grata - che preveda l’istituzione di operatrici e operatori culturali per l’integrazione che operino sul territorio con sovvenzionamento dello Stato (la gratuità del volontariato, che viene quasi sempre addossato solo alle donne, è l’unico mezzo previsto dal sistema), sarei curiosa di sapere cosa risponderebbero le operatrici e gli operatori suddetti se le donne musulmane obiettassero che:

- non è forse vero che in Italia si sia ben lontani dal garantire non solo il rispetto delle donne ma perfino la sopravvivenza delle stesse (vedi femminicidi ricorrenti e talune sentenze della magistratura)?

- è forse segno di rispetto per le donne che: i loro corpi vengano sistematicamente utilizzati per la vendita di oggetti di ogni tipo, quasi sempre in abiti succinti; si possa pubblicizzare qualcosa con immagini che suggeriscono lo stupro; sia considerato normale che l’attenzione dei quotidiani italiani venga in massima parte dedicata al “lato B” delle atlete di Rio?

- è forse segno di rispetto per le donne che nessuno rifletta sulle eterne gallerie, propinate da molti quotidiani, di dive dello spettacolo che “meravigliosamente” a 70 anni ne dimostrano 30 e che vengono esaltate come esempi luminosi di femminilità proponibile, tralasciando a quali costi fisici di bisturi si siano “dovute” sottoporre, per ottenere e mostrare al mondo quelle immagini costruite di se stesse?



C’è da ritenere, Signore e Signori del Parlamento e del Governo, che gli incontri dialogici ipotizzati in totale buonafede da alcune e qui riportati, stipendiati dallo Stato come dovrebbe essere e come non è, possano avere realmente successo nel dare un minimo di credibilità alle richieste di adeguamento ai valori di un Paese, che fa di tutto per negarli già in proprio?



Quando verrà esaminato nella sua dimensione complessiva questo gravissimo iato, evitando di circoscrivere solo agli effetti attuali o futuri dell’immigrazione le discriminazioni contro le donne, affinché le musulmane possano soggettivamente sentirsi libere di liberarsi senza rischi e le donne occidentali - nel nostro caso le italiane - possano non solo veder definiti da una Carta i loro diritti ma viverne quotidianamente l’attuazione, disponendo così anche di un modello reale di indipendenza e libertà da offrire utilmente alla riflessione di chi arriva da mondi diversi?

Quando lo Stato capirà di avere L’OBBLIGO di finanziare tutte le iniziative necessarie per la difesa e l’attuazione dei diritti delle donne, a partire da quelle per la difesa della loro vita di cui si fanno e/o si sono fatte carico le Associazioni nostrane contro la violenza sulle donne, invece di tagliar fondi come fa?



21.08.2016 © Iole Natoli

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