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Quel che resta della rivoluzione

Quel che resta della rivoluzione

Tunisia - Da Tunisi a Regueb si continua a combattere, ma lo scontro è tutto politico. Smesse le lacrime, le pietre e gli spari della polizia è iniziata la dialettica

Emanuela Irace Giovedi, 25/08/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Agosto 2011

Ci sono momenti in cui ci vuole coraggio anche per prendere un microfono e testimoniare la propria presenza. Ci vuole forza. Specie se sei donna e musulmana. E sul palco ci sono solo uomini. Wahiba Akremi ha la fierezza berbera delle tunisine del sud. Viso scuro e pelle elastica. Età indefinita. Indossa un hijab giallo. Parla soltanto arabo e prima della Rivoluzione non aveva mai fatto politica. Lavora come ausiliare in una scuola di Regueb. Villaggio agricolo a 300 km dalla Capitale, nel Governatorato di Sidi Bouzid. Epicentro delle rivolte dei giovani laureati che hanno scatenato la rivoluzione. Wahiba si batte per la giustizia sociale tra le regioni di uno Stato a doppia velocità: infrastrutture e sviluppo sulla costa, povertà e marginalizzazione nell’entroterra. Insieme agli studenti, ai contadini e all’associazione dei disoccupati ha partecipato agli scontri di gennaio, lottando contro polizia e cecchini, che per più di una settimana hanno tenuto a ferro e fuoco la città sparando sui manifestanti e lasciando a terra cinque giovani e una donna. Dall’inizio della Rivoluzione alla caduta di Ben Alì sono 300 i figli che la Tunisia piange. “I nostri martiri non ci fanno paura”, dice un padre: “Se in futuro ci sarà lavoro per i giovani, se gli investimenti verranno fatti anche qui da noi, il loro sacrificio non sarà vano, ma se il paese dovesse tornare indietro allora mio figlio sarà veramente morto”. Su 700.000 disoccupati 150.000 hanno un’istruzione universitaria. A Regueb come a Sidi Bouzid studiare per ottenere un posto pubblico è l’investimento di una vita. Dietro ogni laureato disoccupato c’è un progetto familiare fallito. È questa la tensione simbolica che ha portato la rivoluzione. Non quella dei gelsomini come l’hanno chiamata i francesi, ma la rivolta di un popolo che ha gridato a un sistema sociale e al suo capo: “dégage”, “vattene”. Anche Wahiba Akremi ha la sua martire. È una donna di 26 anni, madre di due figli. Wahiba interviene al termine del convegno . È l’unica donna a parlare: "Non si è parlato di noi, eppure abbiamo fatto manifestazioni insieme a voi, abbiamo avuto la nostra martire. La donna di Regueb ha fatto la rivoluzione e adesso costruirà il futuro". Ci sono tutti al convegno organizzato il 30 giugno per la visita di Assopace. Rappresentanti dei partiti, del sindacato, delle associazioni, degli studenti e del Governo della città. Chiedono sviluppo e partecipazione democratica. Trasparenza e lotta alla corruzione. Decentramento amministrativo e impegno dell’Ue a far rientrare in patria il tesoro di Ben Alì, trasferito in Europa con la complicità di Governi che fino all’ultimo hanno appoggiato la tirannia del dittatore. Un’Europa isolazionista e balbuziente. Fallimentare sia nella gestione dell’immigrazione che nella partecipazione militare alla guerra in Libia. All’Unione Europea e alla Banca Centrale Europea i tunisini chiedono l’azzeramento del debito dello Stato contratto dal Presidente. Una valanga di soldi che sommati al recente prestito ottenuto dal governo provvisorio al G8 di Deauville - 25 miliardi di dollari da restituire in dieci anni - raggiunge cifre da capogiro. I cittadini di Regueb citano Gramsci e le sofferenze dagli italiani durante il fascismo. Sono orgogliosi di essere tunisini e musulmani, come Wahiba che indossa il velo e non teme lo spauracchio del pericolo salaafita. Agitato dai concorrenti di sinistra più in funzione elettoralistica che per reale prospettiva di islamizzazione. “Per il popolo l’appartenenza all’identità arabo-musulmana è indiscutibile”, dicono i rappresentanti del partito Comunista, alludendo alla questione religiosa e al dibattito sull’articolo 1 della Costituzione che si vorrebbe riformare. Anche in casa femminista l’ipotesi di recezione della legge islamica nella futura carta costituzionale appare irrealistica. Sia per il ripristino della poligamia che per l’imposizione del velo. Eppure, flussi di denaro e partecipazione degli Emirati arabi, specialmente Qatar ambizioso e nuovo potente attore politico del mondo arabo, rappresentano la spina nel fianco all’evoluzione “laica”. Difficile non cadere nella trappola dei paradigmi concettuali. Dell’uso di categorie occidentali per decodificare una realtà che ovviamente non può essere interpretata attraverso la dicotomia laico-confessionale. “Preferisco parlare di neutralità più che di laicità”, spiega con pragmatismo Maya Jeribi. Cinquant’anni. Unica donna segretario di partito, il potente Pdp, che con il 29% di consenso nei sondaggi contende la scena politica all’Ennahdha di Gannouchi, che si attesta al 30% e che raccoglie gli islamici della diaspora perseguitati durante il ventennio di Ben Ali. “Lo Stato deve avere la gestione della questione religiosa senza prenderne parte. Noi del Pdp vogliamo la neutralità dei luoghi di culto”. Anche l’Ennahdha cerca di controllare il consenso dandosi un’immagine impeccabile, utile allo sdoganamento politico conquistato a marzo, grazie al profilo basso tenuto dai propri dirigenti, e al tergiversare su un programma non ancora reso pubblico. Alla base, scelta economica e valori sociali. Ovvero l’indirizzo che si darà il paese all’indomani del 23 ottobre, data per le elezioni dell’assemblea costituente. In pole position le garanzie date agli Usa su liberalismo e protezione del capitale. Cavallo di battaglia sia per l’Ennahdha - che si autodefinisce, in chiave musulmana, l’omologo della nostra Democrazia Cristiana - che per il Pdp, forza democratica e progressista. Ma la fine del modello paternalista, incarnato da Ben Alì e dal suo clan, non è di per sé garanzia di cambiamento in funzione democratica. Ne è convinta Olfa, giovane giurista dell’associazione tunisina donne democratiche, figlia di un Imam Sufi, laica e femminista da sempre: "Stiamo lavorando per far passare il principio della parità nelle liste, un uomo e una donna, ma il problema e riuscir a far mettere le candidate in cima alle liste, altrimenti non verranno elette. C’è una forte pressione sociale da parte del Ennahdha. Dicono che le nostre libertà verranno rispettate e che lo Statuto personale della donna verrà integrato nella nuova costituzione. Ma io non ci credo. Chi difende l’Ennahdha sono al 99% partiti fascisti. Se vincono le elezioni il pericolo di tornare indietro, con in più l’applicazione della legge islamica, è un rischio concreto che non possiamo correre ".

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