Poesia/ Maria Marchesi - L'unico libro di Maria Marchesi è "L'occhio dell’ala" titolo ripreso da un verso di Celan
Benassi Luca Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2005
Maria Marchesi ha pubblicato un solo libro, L’occhio dell’ala, titolo ripreso da un verso di Celan, che ha immediatamente suscitato l’interesse della critica, arrivando a vincere il Viareggio 2004, sezione poesia, in ex equo con Antifona di Livia Livi. La poesia della Marchesi ha avuto una vicenda travagliata prima di giungere alla pubblicazione: fu apprezzata da Zanzotto, da Siciliano che le scrisse “sono versi talmente belli che avrei voluto scriverli io. Siamo alla vertigine lirica, al ritmo di una samba diabolica e innocente”, e da Veronesi che le promise una pubblicazione su Nuovi Argomenti, mai fatta. Nonostante l’intervento dello stesso Zanzotto, la Marchesi fu ignorata dagli editori e dimenticata dai suoi stessi ammiratori che arrivarono a negarsi al telefono. Riscoperta da Dante Maffìa, è stata pubblicata da Lepisma nel 2004.
È difficile immaginare se la Marchesi pubblicherà un altro libro: l’occhio dell’ala si muove intorno ad un unico accordo con variazioni sul tema dell’esperienza manicomiale della poetessa. Lo strumento è la metafora, non intesa come mezzo retorico, ma come fioritura del linguaggio poetico, replicabile all’infinito sullo stesso oggetto. In questo senso la poesia della Marchesi si presenta in uno slancio propulsivo, che esaurisce nella propria accensione tutta la materia creativa del vissuto, rendendo difficilmente pensabile uno sviluppo poetico che non sia una ripetizione prismatica, una riscrittura del già detto. L’occhio dell’ala è in ogni caso un libro straordinario, nel quale il linguaggio si fa poesia attraverso il codice della metafora che sublima il vissuto in un distillato di simboli. Viene in mente Zanzotto ma anche certe intuizioni visionarie di Campana: la Marchesi è vittima e carnefice delle proprie immagini, maestra di una poesia stupita e magica, che nulla deve alla vita se non il dolore che schiuma nella carta.
I TESTI
Da L’occhio dell’ala, Lepisma Edizioni, Roma 2004
***
L’arenarsi dei voli
nel corpo morto degli orologi
guasti. La discesa
nel vasto impero del riconoscersi appena
o del negarsi. Nella smemoratezza.
Sul foglio bianco
S’arruffano le penne dei pavoni
morti da millenni. Un mutare
di ruote che inseguono l’alone
di mercenari pronti all’invasione,
un’oncia di postille messe a caso.
***
Se il senso vola alto
come farò a sfiorarlo?
Cadono troppe aurore
sui bisturi ciechi del quotidiano.
Si chiude la porta,
fa orrore la toppa
e più mi scuoti
più s’eterna lo sfascio della mente.
***
L’invadenza della carta stampata
che dormiva sulle scrivanie dei medici
sfaldava l’attesa in un divario
di maledette allusioni.
Un cavalluccio marino sdraiato
sembrava volesse dimostrare
che anche dopo morti si può avere senso.
Un airone imbalsamato sbraitava
da luoghi remoti, assonnati, da cui
mai nessuno è tornato.
***
Chi mi costrinse a ingoiare rane
e coccodrilli e tegami, bottiglie?
Avevano una voce e mi ci coricai
avida di carezze. Facevo le rincorse
sui davanzali e ingiuriavo l’alba
con congetture orribili. Il sogno
si arenava nel murmurare inquieto
delle ascelle sudate, nel rimario
analfabeta del vento, nell’orgasmo
dal sapore di calvario.
***
Dannato il cigno che si veste d’ansia
e vende l’anima al cerchio del risaputo.
Il cronista di me fui io stessa
e blateravo di catene e cifre.
Leggevo Kafka, mi tagliai le vene.
***
Il Passio fu cantato a voce alta.
L’Arena perse incanto. Scoccò l’ora
della preghiera che di cerchio in cerchio
arrivò fino al colmo dell’infamia.
O era il firmamento sceso a patti
con il consueto giro del mea culpa?
Il caffè lo beveva accoccolato
sul mio sesso voglioso. A tratti
gridava troia vestiti fai schifo. Ridevo
alla luminaria del mio trionfo. Lui
belava come un capretto
che si fa macellaio per dispetto.
***
Se sono stata madre non lo so.
Tutto è possibile. Mesi di silenzio assoluto,
ovatta di parole, gesti, ronzii.
La tramontana dava la mano
al sole marcio, cadevano torri antiche
senza far rumore. Il mio ventre
non sentiva aromi, né sussurri, era
un davanzale di pietra e aveva tanto sonno.
***
Io non sono poetessa
ma mi piace scrivere e affermare
di esserlo. Da piccola ho sentito dire
che i poeti sono pazzi e allora
perché non secondare il detto?
E poi, da quando scrivo
Mi è più facile avvicinare
gli uomini; cominciano a trovarmi
interessante, d’animo gentile.
Così mi vengono sopra
con giusta violenza, temono di sciupare
una bella pagina o di finire
nei miei versi con nome e cognome.
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