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Quando le riforme sono<br> (pre)occupanti

Quando le riforme sono
(pre)occupanti

Costituzione - Perchè la storia delle donne si cancella da sola? Un esempio ne è una proposta di modifica costituzionale elaborata con visioni di genere. Era il 1984, ma non se è saputo (più) nulla

Giancarla Codrignani Lunedi, 01/03/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2010

Stiamo (pre)occupandoci di riforme della Costituzione italiana: è bene non dimenticare che il problema di aggiornare la nostra Carta fondamentale è all’ordine del giorno dei lavori parlamentari dal 1983, quando fu istituita la prima Commissione bicamerale ad hoc, chiamata Commissione Bozzi dal nome del suo presidente, un liberale di alto profilo, stimato indiscutibilmente da tutte le parti politiche. Fin da allora era emersa la necessità di dare ad una società complessa regole che consentissero alle istituzioni di governare i nuovi processi con tempestività ed efficacia. Le buone intenzioni non riuscivano a nascondere interessi meno limpidi che – come scriveva Stefano Rodotà in un suo documento di denuncia – si legavano “alla specifica situazione italiana… dal cuore della costituzione materiale, dove i poteri occulti hanno preso il sopravvento sulle istituzioni della trasparenza. L’obiettivo della riforma dovrebbe consistere nell’accumulo di sempre più consistenti poteri di decisione ai vertici dello stato… affrancati sostanzialmente da efficaci poteri di controllo, forme di personalizzazione del potere e tratti di quella che ormai comunemente viene definita democrazia plebiscitaria”. Infatti “il malessere istituzionale ha le sue radici non tanto nella mancanza di adeguate procedure, quanto nella straordinaria difficoltà dei rapporti tra le istituzioni e la società”. Quelle che nel novembre 1984 apparivano critiche radicali ad antiche intenzioni dirigistiche sono diventate acqua fresca di fronte all’impudenza della volontà monocratica di Berlusconi (e sembrano anche cancellate dalla memoria del centro-sinistra). Posso immaginare che le dichiarazioni di Rodotà siano ancora recuperabili in qualche faldone della Camera dei Deputati. Non sono altrettanto sicura della conservazione di una lettera - con allegate proposte sulla necessità di emendamenti della Costituzione secondo il diritto, come si diceva allora, “sessuato” - inviata all’on. Aldo Bozzi nella sua qualità di presidente della Commissione per le Riforme Costituzionali. Anzi, non fatico ad immaginare che il documento sia stato immediatamente considerato uno scherzo e pertanto cestinato dai collaboratori o dallo stesso presidente che, persona correttissima, non avrebbe omesso di rispondere su cose serie ad una collega di cui conosceva la serietà. In effetti negli anni Ottanta del secolo scorso proposte come quelle del documento che riesumo suonavano scandalose dal punto di vista di istituzioni che, ancor oggi, si ritengono rigorosamente neutre anche quando investono donne. Eppure il genere femminile leggeva nella Costituzione – e legge – che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire “l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. Già nel 1984 si poteva dire che l’articolo in questione - tenuto in debito conto l’art. 36 sui diritti del cittadino lavoratore (che dovrebbero essere paritari e rendere pleonastico il 37) - andava, se non cancellato, almeno emendato. Pertanto la proposta chiedeva la sostituzione del secondo comma con un più rigoroso “Le condizioni di lavoro devono assicurare alla madre e al bambino il rispetto degli specifici diritti” o anche, in via subordinata, il mantenimento della formula di tutela, ma, in ogni caso, escludeva quell’ “essenziale funzione familiare” che continua ad essere discriminatoria per le donne e, oggi, in presenza di una mentalità meno conservatrice, appare sostanzialmente lesiva del diritto dell’uomo ad una propria “essenziale” funzione familiare. E’ più che ovvio che i Costituenti intendevano far riferimento alla “differenza” sostanziale della maternità, che rende immediatamente vulnerabile la lavoratrice. Ma non si poteva menzionare la maternità come “diritto” senza cambiare l’intera antropologia della giurisprudenza. A conferma delle difficoltà che le donne hanno di fronte alle istituzioni. Inoltre il documento presentato alla presidenza della Bicamerale prevedeva altre modificazioni. Nell’art. 2 si chiedeva che “i diritti inviolabili dell’uomo” diventassero ‘della persona’. L’art. 29 (“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato all’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”) doveva invece subire una trasformazione radicale:“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia. Il matrimonio e la libera convivenza sono ordinati sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi o dei conviventi con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dei diritti personali e sociali”. Analogamente l’art. 31 (“La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose”) andava sostituito: ”La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la famiglia comunque costituita e l’adempimento dei compiti relativi alle responsabilità individuali e sociali”. Da ultimo, tra le competenze delle Regioni (art. 117) si pensava necessario inserire “l’attuazione della parità”. Ancor più trasgressivi potevano apparire i contenuti della Premessa che conteneva auspici non strutturati come emendamenti. Vi era infatti scritto che “il fatto che in Italia la percentuale dell’elettorato sia composto per il 52% da donne dovrebbe comportare: A) per quanto si riferisce al numero dei deputati e dei senatori la fissazione di una quota minima di parlamentari donne (artt. 56-57); B) per la Presidenza della Repubblica e per le presidenze di Camera e Senato il principio dell’alternanza dei sessi (art. 84); per il Consiglio superiore della Magistratura e per la Corte costituzionale la fissazione di un quorum (art. 104 e 135)”. Erano tempi in cui si parlava delle “quote” e anche chi, come chi scrive, non vi riponeva grande fiducia, teneva a configurare almeno i termini di una parità sostanziale. La proposta era stata partecipata alle colleghe del Gruppo interparlamentare delle donne del Partito comunista e della Sinistra indipendente (gruppo anch’esso svanito nelle nebbie della dispersione di “conquiste” che, se femminili, non fanno storia, senza che ne sia stato deliberato lo scioglimento, così come, forse, non ne era stata registrata neppure la formazione) e intendeva almeno fare notizia. Oggi siamo anche tutte noi ben convinte che nessuno deve potersi azzardare a modificare la prima parte della Costituzione, quella dei principi e, per fortuna, la sentenza della Corte del 1988 ci salvaguarda da tentativi eversivi. Tuttavia non va dimenticato che fu proprio per dare soddisfazione al genere femminile - un voto bipartisan applaudito dalle elette del tempo - che nel 2003 si integrò l’art. 51 con la promozione (e non la garanzia) delle “pari opportunità” (che non sono i pari diritti) elettorali. I risultati sono sotto gli occhi di tutti con la parità di veline ed escort. Possiamo dunque supporre che, nel 1984, chi dei maschi parlamentari ebbe notizia del nostro intervento, a copertura di proprie ancestrali paure, abbia contribuito a sottrarre alla documentazione una traccia dell’evidente, solita dismisura della follia femminile. Resta il fatto che, tranne le grandi riforme specifiche, come l’aborto o la violenza sessuale, sembra che il genere non abbia testimoniato la sua rappresentanza se non per la presenza, che non sempre dovrebbe essere, credo, omologabile. Nell’attuale tensione, ben altrimenti preoccupante, ho voluto rievocare una “storia privata” che avrebbe voluto essere pubblica, a dimostrazione dello spreco che si è fatto della preveggente costruttività del genere ancora escluso: ventisei anni fa già quel genere individuava esigenze interpretative avanzate di una Costituzione che i padri avevano scritto perché fosse letta per estendere nei decenni, anche senza modificarne il testo, i diritti di tutti. Infatti quell’intervento intendeva provocare l’istituzione a considerare la rilevanza delle aspettative di genere, dato che la Carta fondamentale italiana è, come insegna la più antica Costituzione americana, soggetta alla lettura storica che segue le variazioni del costume. Infatti la Costituzione ritiene fondamentale la famiglia, ma non dice “quale famiglia”; allo stesso modo la fonda sul “matrimonio” senza definirlo. All’origine si accettò laicamente che non bastasse la celebrazione del parroco (anche se allora perfino gli atei si sposavano in chiesa per conformismo) e la proposta dell’indissolubilità - scelta libera dei credenti - fu bocciata. Oggi il costume ci impone di pensare che il matrimonio può essere religioso o civile, ma anche fondato sulla libertà di chi sceglie non l’impegno religioso o il contratto, ma l’amore che si riconferma ogni giorno nella convivenza. E non dice nulla sui contraenti. E’ per questa possibilità di lettura diacronica che la Costituzione italiana non invecchia. Lettura che sembra estranea alla cultura del governo e ancora timida nell’opposizione. Perfino delle donne parlamentari.



(1 marzo 2010)

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