Risposta a chi pensa che le battaglie civili per l'affermazione dei diritti delle donne siano state condotte "da quattro figlie di papà che sfilavano in piazza".
Venerdi, 07/01/2011 - Quando le parole colpiscono più delle pietre
Leggendo le pagine odierne della sezione “in rete” di Noi donne mi sono voluta ritrovare nei panni della donna afgana, colpita e vessata dalla nuova legge promulgata con l’avallo del presidente Karzai, e nei panni di una donna italiana su cui venivano riversate le parole ostili di un commentatore, a cui poco era piaciuto un articolo che consigliava l’acquisto di un libro che raccontava del difficile cammino delle donne italiane per il riconoscimento dei loro diritti. Immediatamente ho provato sdegno per la nuova normativa afgana, che consente al marito di stuprare impunemente la moglie, ma non ho saputo definire ciò che provavo a leggere i commenti di quell’uomo, italiano, che riversava in rete tutta la sua rabbia ed il suo odio verso le donne. Sono rimasta sconcertata: un semplice consiglio ad acquistare un libro è diventato per lui l’occasione per scatenare un’ennesima guerra di genere. Chi sfugge al confronto, citando persino un proverbio tibetano contrario alle donne, per non guardare alla storia dei rapporti tra uomo e donna, così come si è manifestata nei secoli, mi induce a provare un senso di frustrazione, mista a sconfitta, per tutto ciò che le donne hanno messo in campo per vedere riconosciute le loro legittime aspettative di uguaglianza con l’altro genere. Mi sono ricordata di una frase che, in occasione del passaggio dell’Anfora dell’Udi nel mio paese, ho detto a degli studenti delle scuole superiori in un pubblico convegno: “non so se i figli dei miei figli vivranno in una società dove donne ed uomini sono uguali pur nella diversità del loro genere “. In quella circostanza ho parlato di una battaglia culturale, perché non esistono imposizioni, obblighi o norme positive che possano indurre all’uguaglianza se non si è educati ad accettarne il valore. A quell’uomo che parla di “quattro figlie di papà che sfilavano in piazza “ per l’emancipazione vorrei ricordare che, allorquando si doveva decidere se consentire il voto alle donne (n.d.r. diritto riconosciuto nel 1946), c’era chi era palesemente contrario. A costoro venne risposto, in sede di assemblea costituente, che se il sangue delle partigiane era servito a liberare l’Italia dall’oppressione nazifascista, quello stesso sangue legittimava le donne a vedere riconosciuto il loro diritto al voto. A quell’uomo, nel contempo, vorrei rimarcare, non andando troppo indietro nel tempo, che ancora oggi l’uomo, marito, compagno o convivente, che uccide la sua donna lo fa perché se ne sente il padrone. Contro questo senso di possesso che non rende le donne soggetti di diritto, ma semplici cose a cui imporre finanche l’obbligo di morire, molto dobbiamo ancora impegnarci. Mi piacerebbe che uomini liberi da condizionamenti mentali e culturali si affianchino a noi nel condurre queste battaglie civili ed uso tale termine in maniera impropria. Certo è che avvertiamo così opprimente il contesto in cui andiamo a rivendicare i nostri diritti,tanto da essere indotte ad utilizzare categorie e termini non tipici del nostro modus pensandi. A quegli uomini che vorranno sostenerci ed essere al nostro fianco io sarò grata, fermamente convinta che è nell’interesse di tutti riconoscere e rispettare i nostri diritti. A quell’uomo, che con le sue parole mi ha ferita e sconcertata, chiedo di liberarsi per sé stesso da quel forte sentimento di odio che prova nei confronti delle donne, ne va della sua capacità di ragionare e di essere “tanto intellettualmente onesto” da riconoscere il suo problema e quali siano i rimedi per la sua soluzione.
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