Lunedi, 10/09/2012 - Mamme di tutto il mondo unitevi, è il primo giorno di scuola dei vostri figli, ci si aspetta da voi ansie, contorsionismi verbali per parlare con la nuova maestra e fare un'ottima figura - un primo impatto come si deve! – sorrisi smaglianti e ampi decolleté, macchine fotografiche per immortalare eventi squisitamente mortali – e cellulari inattesi che:
- "Dai facciamo la foto! Sorriso... non funziona... è scarico!"
- "Sei sempre la solita! Se non te svegli! (gergale, ovviamente)".
Era la voce del padre? I padri ci sono?
Alcuni sì, e sono racchiusi in quella risposta che segna la sveglia del mattino, un 10 settembre in cui una bambina attraversa per la prima volta il portone d'ingresso di una scuola statale della provincia, forse convinta che quello sia il mondo.
Ma i padri lo sanno che altro è il mondo, sanno che devono correre verso un lavoro che non ha concesso permessi di paternità, che impone un orario, che in quelle aule neppure spera - poiché nessun posto si libererà nei prossimi quarant'anni -.
I padri lo sanno e scontenti, in disparte, forse costretti dalle loro compagne a vivere un momento speciale, riconoscono il trucco e per sopravvivere filtrano il momento nell'ombra di un'esperienza già vissuta:
- "Ma è uguale al primo giorno della materna!"
Ma... scrutiamo dietro le quinte di uno spettacolo già visto, vediamo se è proprio uguale, questo giorno, a quello di tre anni fa.
Prima di tutto la scuola
La scuola materna, innazitutto, ha cambiato nome per legge, trasformandosi in scuola "dell'infanzia"; tuttavia per mamme, maestre e bidelle (anche loro hanno cambiato nome, sono un acronimo palindromo, un insieme di personale ATA) resta una "scuola materna" – forse in onore di quel ruolo di mamma vecchia maniera, oppure per un'idea di accoglienza che non si addice molto alla scuola "dell'obbligo", ma che va ancora di moda per la scuola "opzionale", la cui gestione, comunque, rimane nelle mani della collettività, ovvero dei Comuni italiani.
Lì le pareti sono colorate dai disegni dei bambini, volano mongolfiere di ricotta e pagliacci avventurosi, gli alberi hanno una vita cui si può partecipare, le porte sono aperte, le classi con banchi in miniatura disposti in gruppo, gli zaini sistemati fuori dall'aula in una dimensione caotica ma collettiva, le maestre indossano buffi camici dove i colori si rincorrono e formavano un ricamo di sole.
Lì l'insegnamento, come l'apprendimento sono frutto di un lavoro della collettività, si fa esperienza di comunità e di condivisione.
Scuola che obbliga
La scuola "elementare" è anch'essa stata trasformata per legge in moderno supereroe: in "scuola primaria", nomignolo rassicurante ma poco attraente visto che – come sopra – mamme, maestre e personaggi ATA si ostinano a pensarla in maniera elementare.
Qui cambia la gestione, non più la comunità locale ma la comunità centrale divide ed impera. L'amministrazione statale, come un groviera, rivela i suoi buchi, mette in mostra le crepe. Solamente la solerzia di maestre affezionate al proprio ruolo, può sanare una situazione tanto evidentemente insostenibile.
La scuola primaria obbliga il bambino: a risiedere in una classe chiusa; a prendere un posto unico nella società; a scegliere un banco di prova; a condividere con alcuni compagni, non tutti, le proprie scoperte. Essa stratifica allegri bambini in file che vanno dalla prima all'ultima e in cui il palcoscenico è di fronte. Infatti, una vecchia cattedra si fa ancora rispettare, così come un'antica lavagna a quadretti che sembra una caricatura dell'abbecedario di Pinocchio.
Pinocchi
Pensavo fosse diversa la scuola "primaria" dalla "elementare" che ho frequentato ben trenta anni fa, pensavo di non dover tornare a scuola e trovarla addobbata con gli stessi cartelloni che avevo nella mia classe, con cartine topografiche degli anni Cinquanta, con i bagni in cui non soltanto non funzionano le maniglie, ma in cui il water è inspiegabilmente sempre sporco.
Ci si abitua anche a questo.
Ci si abitua a considerare Pinocchio, il burattino menzognero e ingenuo, come l'unica possibilità che ci sia data, o un pinguino grasso in doppiopetto che racconta storie/favole/leggende/barzellette come l'unica possibilità di riscossa che abbia un paese giovane come l'Italia.
Ci si abitua a pensare che il pubblico non sia collettivo, che quel banco che occupavamo anni fa – e che oggi occupa nostro figlio - fosse il trampolino di lancio verso una vita individuale, per nulla collettiva, oggi perfino normata da una Legge "626" che garantisce minimi di sicurezza, ma non considera la necessità della condivisione del sapere e della conoscenza.
Ci si abitua a inveire contro la maestra di turno perché non è ancora stata nominata la docente delle materie scientifiche, perché non ci sono armadi chiusi a scuola per tenere i libri, perché: "è assurdo che ogni anno mia figlia cambia maestra!", perché non si trova mai un bidello quando ti serve (ovviamente perché ha cambiato nome!), o perché "mio figlio ha avuto tre maestre diverse in un anno, dove sta la continuità didattica?".
Ci si abitua a non sapere a chi rivolgersi. A considerare il pubblico un affare privato di quattrocento impettiti signori dall'aria per bene che la mattina decidono e la sera sovvertono tutte le decisioni in onore del bene comune, e ad onere del medesimo bene comune: noi cittadini.
Cittadini della Res Publica
Noi siamo i cittadini di questa Repubblica, noi abbiamo diritti e doveri normati da Leggi costituzionali e ordinarie, noi siamo la cosa pubblica, la collettività e la comunità, noi siamo il nostro bene comune.
Quindi torniamo a scuola, occupiamoci di noi e dei cittadini del futuro, scriviamo e parliamo del e sul bene pubblico dal nostro punto di vista: le autorità esistono anche per metterne in discussione le decisioni, la cattedra non suggerisce un'idea di potere ma di autorevolezza.
Recuperiamo l'autorevolezza del pensiero e condividiamo le esperienze frutto della conoscenza. Questo è pensare al bene comune.
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