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Quando la memoria privata è un bene collettivo

Quando la memoria privata è un bene collettivo

A tutto schermo - Il bel documentario di Mara Consoli “Vittorio, Capitan Pistone … e tutti gli altri” verrà presentato a Roma il 21 settembre, nella giornata mondiale dell’Alzheimer

Colla Elisabetta Lunedi, 19/09/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2011

È difficile dare una definizione di Mara Consoli, autrice, sceneggiatrice, produttrice, documentarista, filmmaker, e tutto questo insieme con ironia e serietà al tempo stesso. Lei, una donna dallo sguardo attento e brillante di vivace intelligenza, preferisce piuttosto definirsi “un’artigiana, un’autrice che da qualche tempo si prende la responsabilità di portare in giro una telecamera per raccontare storie, piccole e grandi che, come la storia di mio padre Vittorio, vanno avvicinate in punta di piedi e raccontate sottovoce, in una dimensione privata e di confidenza, senza riflettori, senza troupe né grandi mezzi, perché ci sono storie che non hanno bisogno di ulteriori diaframmi.” Il 21 settembre, giornata mondiale dell’Alzheimer, presso la sede della Provincia di Roma, Mara Consoli presenterà il suo secondo documentario, “Vittorio, Capitan Pistone … e tutti gli altri”, una storia in parte autobiografica, perché racconta la malattia del padre Vittorio con i suoi interlocutori immaginari (come Capitan Pistone) ed il coinvolgimento della sua famiglia, in parte dedicata a tutti coloro che entrano in contatto, a vario titolo, con l’Alzheimer. Alle immagini di famiglia, che ritraggono scene quotidiane, fra difficoltà, solidarietà e poesia, si alternano interviste alla Presidente dell’Associazione AIMA, Patrizia Spadin, e ad altre persone coinvolte nel doloroso percorso della malattia.

Com’è nata l’idea di realizzare questo documentario sull’Alzheimer, tra storia privata e pubblica?

È nata per caso, non c’era una volontà iniziale di fare un documentario sull’Alzheimer né tantomeno su mio padre, già malato da tempo, ma c’erano moltissimi episodi della malattia che si era manifestata ed aveva “pervaso” la mia famiglia. Ciascuno di noi ha reagito in modo diverso, soprattutto all’inizio, c’è stata una fase di assestamento, di accettazione: io me ne sono accorta per prima, da alcuni episodi eclatanti. Quando ho capito che qualcosa non andava, abbiamo iniziato con le visite, poi con i Centri U.V.A. (Unità di Valutazione Alzheimer). Ci si trova con una persona che si conosce benissimo ma che è completamente diversa, è cambiata, ha subito variazioni caratteriali e del linguaggio. Il progredire della malattia è un dolore che graffia l’anima così, tornando a casa dopo le giornate con mio padre, scrivevo tantissimo. Avevo bisogno di incanalare tutte le emozioni dalle quali si viene travolti, perché è difficile condividerle. Quando ho ritenuto di aver scritto tutto quello che potevo, un giorno, era il compleanno di mio padre, ho portato la telecamera ed ho fatto delle riprese. Mi sono accorta che questo mi aiutava, era come se mettessi una diga al flusso di emozioni, perciò ho iniziato a riprenderlo più spesso, la telecamera mi dava modo di destreggiarmi tra me e mio padre, di creare un’ulteriore messa a fuoco, un diaframma ma senza barriere. Era un’arma in più, un appoggio: così ho continuato.

C’è stata una volontà di “socializzare” con altri, attraverso il documentario, le informazioni acquisite negli anni della malattia di tuo padre, per sostenere altre famiglie?

Quando mio padre è morto, dopo diversi mesi, molte interruzioni e molte lacrime, ho rivisto tutto il materiale: ho rivissuto il dolore provato ma, poiché la rabbia era viva (ho provato tantissima rabbia per le mancanze di aiuto, di strutture e, soprattutto, di informazioni), ho anche deciso di girare e produrre un documentario sull’Alzheimer, per raccontare le difficoltà dei familiari e dei malati. Ma non volevo fare soltanto una geografia di mio padre e della mia famiglia, di quello che ci era successo, intendevo piuttosto dare un respiro più ampio al progetto: così ho preso contatto col Centro Diurno dove andava mio padre ed ho cominciato a frequentarlo, a seguire storie di altri malati e di persone che, con la loro disponibilità e dignità, mi hanno offerto un ventaglio abbastanza variegato di situazioni ed esperienze.

Se per voi , fratelli e sorelle, è stato difficile affrontare la malattia, tanto più lo sarà stato per vostra madre….

R: Mia madre è stata per mio padre il principale punto di riferimento ma all’inizio le era difficile accettare l’idea della malattia: lei sperava in una vecchiaia tranquilla tra due persone che, finalmente, dopo una vita di responsabilità, si sarebbero potute rilassare. Invece è arrivata la malattia che ha sconvolto tutto: inizialmente si tende a rapportarsi al malato come se fosse sempre la stessa persona, come se alcuni comportamenti fossero volontari, poi si comprende che sono legati alla malattia e si cambia atteggiamento. C’è una ridefinizione dei ruoli familiari, che non avviene d’improvviso ma si modifica nel tempo. Non è facile: i figli entrano in un territorio che è proprio dei coniugi, del loro rapporto, ma mia madre è stata brava ad aprire degli spazi, è stato un processo lungo. Ci siamo accorti che funzionavamo molto meglio operando come squadra che singolarmente.

Nella tua esperienza di questi anni, ti sembra che le donne abbiano un carico maggiore, in famiglia, nel supportare chi si ammala di Alzheimer?E che succede quando è la donna ad ammalarsi?

Una cosa sicura è che il peso di questa malattia grava per la maggior parte sulle donne, che siano mogli, madri o figlie, perché c’è una concezione diversa del “prendersi cura dell’altro”, tipico del femminile più che del maschile, che fa parte di un certo tipo di cultura e di organizzazione familiare. Questo l’ho potuto constatare con tutte le persone che ho incontrato, è una cosa che si tocca con mano, entrando e conoscendo questo mondo, ed emerge anche dai risultati delle indagini CENSIS sulla malattia, quantificati in percentuali e numeri ben precisi: il carico maggiore ce l’hanno le donne. Si può fare una lettura a vari livelli: antropologico, psicologico, sociologico, economico e, ad ogni livello, si trova una risposta del perché le donne si occupano maggiormente dei malati. In Italia il problema è anche più grave, dato che il nostro è uno dei pochi paesi in cui - per una scelta dello Stato - la gestione del malato di Alzheimer viene demandata all’interno del nucleo familiare. I Centri U.V.A. sono stati varati solo nel 2000 mentre in Giappone, dove la malattia è stata scoperta più tardi (i giapponesi andavano all’AIMA per parlare con Patrizia Spadin) oggi hanno strutture all’avanguardia. Nei paesi del Nord Europa esistono quartieri, palazzi e condomini dove le famiglie ed i malati sono seguiti da personale specializzato (es. infermieri). A proposito di quanto siano le donne a supportare/sopportare il peso della malattia, non è un caso se le “tragedie della disperazione” avvengono soprattutto quando è il marito ad occuparsi della moglie malata. In questi anni non mi è mai capitato di leggere un articolo con un titolo come: “anziana disperata uccide il marito malato di Alzheimer”.

Cosa significa, nella tua esperienza, essere un’autrice e documentarista donna? E cosa diresti alle giovani sceneggiatrici?

In questo mestiere credo ci siano gli stessi problemi che le donne incontrano in qualsiasi mestiere, a parte quelli tradizionalmente femminili di maestre o infermiere: quando ti proponi e presenti un prodotto, un’idea, devi comunque faticare il doppio e dimostrare di essere più brava, per arrivare ad essere considerate ‘quanto’ un uomo. Nel campo lavorativo, ci sono stati tanti episodi in cui ho capito di aver pagato, almeno in parte, il fatto di essere una donna e mi sono resa conto che, se avessi voluto sfruttare il fatto di essere donna, avrei potuto esibirmi in qualche maniera. Cose di questo tipo, credo siano patrimonio dell’esperienza di tutte le donne: rimango perplessa di fronte alle donne che dicono di non aver mai avuto problemi in questo senso: il tetto di cristallo c’è! Esiste una competizione fortissima in un ambiente in cui i prodotti dovrebbero essere opera di cooperazione. Per fare questo lavoro, parlo della mia esperienza, credo si debba stare sempre molto attenti a quello che succede, come i padri e le madri del neo-realismo - perché c’erano pure le mamme nel neorealismo! – che dicevano di girare sempre con un taccuino in borsa, di prendere il tram e stare in mezzo alla gente, di muoversi tanto. Io l’ho sempre fatto, ho un archivio pieno di quadernetti, ne tengo sempre uno, è anche questione di trovarsi al posto giusto al momento giusto ma la fortuna va aiutata. Le storie da raccontare le scelgo da sola e credo non ci sia niente di più bello che raccontare una storia vera.



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MARA CONSOLI. Laureata in Storia e Critica del Cinema, nutre un forte interesse per il linguaggio e la pubblicità. Dopo aver frequentato corsi di sceneggiatura con Ugo Pirro e Francesco D’Amico, Robert McKee e David Zarkoff, si appassiona a questa forma di scrittura “tecnico-artistica”, e le si apre il mondo della sceneggiatura. Scrive testi per il teatro ed inizia con alcune proposte televisive, finché Alberto Silvestri le commissiona alcune sceneggiature per una serie televisiva. Figlia della televisione più che del cinema, che pure ama, ha incontrato personaggi del mondo dello spettacolo che ne incoraggiano il talento. Dopo una lunghissima gavetta, anche come assistente al montaggio per riprese di spettacoli teatrali, inizia a lavorare per la RAI, nel settore Ricerca, Promozione e Sviluppo di Rai2, in qualità di autrice e regista, occupandosi di importanti campagne promozionali (es. i promo per la presentazione dei palinsesti italiani a Cannes, la fiction di Montalbano). Continua a scrivere ed a proporre programmi televisivi, collaborando con società diverse (Mediaset e La7). Dopo 12 anni interrompe la collaborazione con la RAI - decisione in parte legata alla malattia del padre - ed acquista una telecamera. Gira il suo primo documentario in Lorena, nel 2006, “Le ultime luci della miniera”, sulla chiusura dell’ultima miniera francese, andato in onda su Rai2. Mentre gira il suo secondo documentario, “Vittorio, Capitan Pistone … e tutti gli altri”, scrive, insieme al regista Sergio Spina, il docu-film: "Sandokan, una storia di camorra", tratto dall'omonimo libro di Nanni Balestrini e prodotto da Raicinema. Dal 2009 collabora con La7 per l’ideazione e la selezione di nuovi format televisivi.



AIMA - ASSOCIAZIONE ITALIANA MALATTIA D’ALZHEIMER


C'è uno slogan che riassume efficacemente l'impegno di A.I.M.A.: "Non dimenticare chi dimentica". Vuol dire, in estrema sintesi, sensibilizzare e informare ma anche battersi, con determinazione, per la tutela dei diritti, per la promozione dei servizi e della formazione, per gli investimenti nella ricerca e per una "organizzazione delle cure" rispettosa dei bisogni e dignitosa per le persone. perseguiti da A.I.M.A., L’associazione fondata nel gennaio 1985 da Patrizia Spadin, figlia di un’ammalata di Alzheimer e tutt’oggi presidente, persegue come obiettivi principali il dar voce alle necessità delle famiglie colpite dalla malattia di Alzheimer e, soprattutto, migliorare la qualità di vita (e di malattia) del paziente e dei suoi familiari, anche attraverso l’informazione. Attualmente A.I.M.A. conta associazioni e gruppi che operano in molte regioni italiane e ovunque cerca di realizzare quella rete di solidarietà e aiuto che, per le vittime della malattia, "fa la differenza". Ha poi condotto battaglie (per la visibilità del problema Alzheimer, per i farmaci gratuiti, per i servizi, per lo stipendio al familiare che cura, per l’uniformità di cura sul territorio nazionale, contro l’indifferenza) che l'hanno avvicinata, in misura sempre maggiore, alla società civile, ed investita del ruolo di interlocutore delle istituzioni. Dal 2005 lavora sul testamento biologico (è stata audita nel mese di marzo 2007 dalla Commissione Igiene e Sanità del Senato) e sulle cure di fine vita, pubblicando, nel marzo 2008 un volumetto dal titolo “Cure Palliative alla fine della vita”. Dal 2005, ha promosso in varie associazioni territoriali l’attività per famiglie che va sotto il nome di Alzheimer Café. Nel 2010 ha festeggiato il 25° anno di attività.





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