Venerdi, 11/06/2021 - È successo qualche giorno fa a Roma, a Torpignattara: una bambina di 13 anni si è suicidata perché oggetto di bullismo. Era isolata/solitaria, sovrappeso, con i capelli corti. "Da maschio" le avrebbero detto i compagni e per questo bullizzata.
Avere i capelli corti è "da maschio", secondo un modello di genere, uno stereotipo, un luogo comune erto a principio generale e rivestito dell’aura di sacralità.
Qualche articolo di giornale fa riferimento alla “conformità di genere", all’"identità sessuale", all’“insicurezza di genere”, insinuando che la bambina fosse transgender, non-binary etc. Il fatto che i capelli corti li portino le ragazze e le donne eterosessuali, le bisessuali, le lesbiche, chi fa sport e chi semplicemente li preferisce e si piace così sembra essere assente da certe riflessioni, esulare da una riflessione immediata, una ipotesi “non pervenuta”.
Cosa c’entra l'identità di genere con il voler portare i capelli corti?
Va piuttosto messo l’accento sulle aspettative di “genere” e sui luoghi comuni che prescrivono modi di vestire, di comportarsi, di relazionarsi, di disegnare il proprio percorso personale, di studio e lavorativo secondo canoni prestabiliti in base al sesso di nascita. E di come/cosa “l’altro/a” si aspetta da te, in una sorta di commedia delle parti, in cui la tua adesione alle regole prescritte per il tuo sesso, diventa riconoscimento e sottende il ruolo che io metto in scena, in una sorta di avallo e conferma reciproca di posizioni.
Uno script, ossia un “copione”, come avrebbe detto lo psicologo sociale Erving Goffman, in cui le persone recitano appunto degli script nelle interazioni quotidiane e nell’allacciare rapporti con gli altri/le altre, avendo una sorta di “guida” da seguire e in cui l’improvvisazione e l’incertezza sono ridotte al minimo. Questa prescrittività serve per contrastare l’ansia sociale, le situazioni di incertezza, la necessità di prendere in esame troppe variabili contemporaneamente, la fatica di scegliere, la spendita di tempo e di risorse scarse per analizzare e interpretare il comportamento altrui. Meglio allora adoperare delle scorciatoie cognitive, ossia delle “euristiche”. Che saranno si meno precise, ma sono comunque sufficienti per adottare risposte immediate e semplici nella vita quotidiana.
Il “genere”, inteso come regole socialmente prescritte e script da interpretare nella pratica, è un processo di trasmissione e di costruzione che inizia, sottilmente e spesso subliminalmente, fin dalla nascita della bambina o del bambino. Viene veicolato in base al sesso di nascita e la trasmissione si protrae lungo tutta l’infanzia, l’adolescenza, fino all’età giovanili e adulta attraverso il “controllo dei pari” (peer control), i modelli da seguire (role models), i ruoli ascritti (gender roles), il giudizio altrui sul modo di comportarci (gender conforming o meno). Un passaggio che dal conformismo di gruppo, può passare e troppo spesso lo fa dalla presa in giro per le trasgressioni percepite, al bullismo fino agli atti di vera e propria violenza. Uscire dagli schemi è non solo un atto di ribellione individuale, ma un gesto che mette in discussione anche l’altro/a e l’insieme del gruppo di appartenenza. Qualcosa di temuto e di sedizioso proprio perché, come nel gioco del domino, travolge chi “dipende” dalla performatività dell’altro/a per vedere confermato e per performare a propria volta il ruolo sociale che ha imparato a mettere in atto e nel quale (ormai) si identifica.
Il Femminismo della seconda ondata ha duramente messo sotto accusa il “genere” per la propria prescrittività di ruoli, comportamenti e aspettative sociali “disegnate” su rapporti fra i sessi squilibrati a favore dell’uomo e discriminatori per la donna. Una critica a cui sono seguiti degli atti di rimodellamento e di cambiamento che hanno portato a rivedere questi script, sia pure parzialmente (spesso con interventi più radicali sulla carta che non nella pratica. Purtroppo), ma che trovano nella ripetizione dei comportamenti e nella loro invariata recitazione il principale ostacolo a una completa sostituzione degli script.
Scrive Maura Gancitano:
“ (…) Chi vive nella società della performance è un performer interessato allo sviluppo del proprio progetto. Non lo è solo in ambito lavorativo, ma in ogni momento della sua vita. Desidera avere prestazioni sempre migliori, immaginare che domani sarà più di quello che è adesso. E per avere una performance migliore domani, oggi ha bisogno di un pubblico che lo guardi, dunque deve fare di tutto per essere visibile” .
Più avanti nel testo, analizzando un episodio della serie “Black Mirror” intitolata “Caduta libera”, in cui la gradevolezza (o meno) e la conformità alle prescrizioni sociali fanno guadagnare “punti” alla protagonista per l’ascesa sociale e l’affermazione personale e lavorativa, il tutto a scapito della genuinità della persona, sempre la Gancitano scrive:
“Se ti sembra che, in fondo, intorno a te tutti se la passano bene, se sui social il mondo ti appare come un posto ospitale e sereno, allora l’algoritmo selettivo sta facendo bene il suo lavoro. (n.d.r. La tua vista) opera una selezione ed esclude ciò che non le somiglia. (…) in questo modo la figura dell’altro sparisce perché è insignificante, specie se non risponde a standard adeguati. Esiste solo il proprio progetto, la propria immagine da coltivare” .
Il perno del discorso sul “genere” verte, pertanto, intorno ai contenuti prescritti per essere “donne” e per essere “uomini”, che modellano e condizionano gli ideali, i comportamenti, le aspirazioni, le scelte personali. Come se fossero due poli distinti e separati. Cosa peraltro riduttiva e difficile che si verifichi, poiché nessuna/o (o semmai pochissime/i) possiede al 100% tutti i caratteri prescritti per essere considerate/i donne o uomini “da manuale”. Al più, l’adesione ai modelli prescritti ha una sfumatura che varia nel corso del tempo, dell’area geografica, del gruppo sociale di appartenenza etc. Molto ha fatto, nel caso delle donne, il Femminismo per sovvertire determinati canoni. Pensiamo al fatto che le donne oggi indossino i pantaloni, studiano, lavorano e hanno i capelli corti (per tornare al caso di cronaca citato!). Tutte cose che, anche solo mezzo secolo fa, non erano esattamente scontate.
Sono state modificate, con pazienza e battaglie epiche, le prescrizioni dettate per un particolare sesso; dimostrando che il “genere” non è un dogma e quindi un set cristallizzato valido “nei secoli dei secoli”, ma un insieme di regole modificabili e sorte per dare stabilità a una certa struttura sociale, economica e familiare.
Intorno al “genere” e ai ruoli, modelli, aspettative, quindi ai suoi “contenuti”, si orientano invece coloro che si indentificano nelle prescrizioni previste e le riconoscono come punto di riferimento della propria identità (“di genere” appunto). Il richiamo è, nello specifico, a coloro che, per sesso di nascita, si vedrebbero ascrivere un processo di socializzazione che è esattamente l’opposto di quello che vorrebbero. Da qui la definizione di “transgenere” o trasgender.
Mentre quindi, da una parte (soprattutto Femminista, ma anche omosessuale), c’è l’aspirazione a modificare, poche o molte delle prescrizioni sociali di “genere” attribuite al proprio sesso di nascita, disarticolandone la formalizzazione e interrompendone la perpetuazione attraverso la ripetizione (performatività); dall’altra, vi sono coloro, soprattutto del sesso non conforme al genere “preferito”, che vogliono potersi uniformare a quelle prescrizioni, perché corrispondenti alla propria identità. Affermando che è sulla base del proprio “sentire” che le persone scelgono l’uno o l’altro genere: se piacciono le “cose da maschio” si è uomo e se piacciono le “cose da femmine” si è donna.
È proprio così?
Il dibattito è aperto.
Nel mezzo, una situazione di grande confusione e incertezze, e anche di accesa conflittualità.
Intanto, la storia di una bambina che voleva solo portare i capelli corti.
Questo fa di lei un maschio/uomo? O una femmina/donna “moderna”? O….
Sicuramente, ne ha fatto una persona infelice.
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