Un disegno di legge presentato al Senato qualifica come “devianza” mentale la violenza maschile contro le donne ed introduce un accertamento sanitario obbligatorio nei confronti degli uomini violenti.
Martedi, 09/09/2025 - Durante la distrazione collettiva tipica dei mesi estivi, un singolare disegno di legge è stato presentato al Senato italiano: “Introduzione della figura dello psicologo forense e modificazioni al codice di procedura penale e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza contro le donne e di genere”. Qualcuno potrebbe dire che tale intervento si inserisce nel solco del disegno di legge che propone l’introduzione nel nostro codice penale fascista del reato di “femminicidio” (già approvato al Senato e trasmesso alla Camera); qualcuno sostiene che è l’ennesima legge contro gli uomini che, poverini, sono loro vittime di donne – anzi streghe – false e opportuniste, aiutate da fantomatici «tribunali femministi» (che davvero non so chi utilizza questa definizione dove li abbia incontrati, visto che la stessa Commissione parlamentare sul femminicidio ha denunciato più volte l’ignoranza della magistratura su tali temi); qualcun altro potrebbe dire che la categoria professionale degli psicologi e psichiatri ha bisogno di un lavoro retribuito. Ma mettendo da parte ogni altra possibile valutazione, il grave problema che pone questo disegno di legge è che inquadra la violenza maschile contro le donne nell’ambito della “devianza psicologica”, e quindi della malattia da curare, anziché nella cultura che tutti e tutte condividiamo, dimostrando ancora una volta l’assoluta ignoranza – o la profonda mala fede – del parlamento in tema di violenza di genere.
Il relatore del disegno di legge ha annunciato che «il presente disegno di legge mira a rafforzare in modo strutturale ed efficace la prevenzione ed il contrasto dei reati riconducibili alla violenza contro le donne», introducendo «misure precautelari» e la «tempestiva attivazione di strumenti di tutela della persona offesa». Viene dichiarata anche qual è la convinzione alla base del disegno di legge: «nella convinzione che non tutte le devianze possono essere rilevate come patologia ma possono anche avere esito omicidiario».
“Devianze”: la violenza maschile contro le donne viene definita una devianza. Così l’uomo violento è definito altro e diverso rispetto a tutti gli altri uomini. Così il problema della violenza è isolabile e curabile, senza che coinvolga e contagi nessuno. Così viene ignorata la prima nozione fondamentale in tema di violenza di genere: l’uomo violento non è malato, è un uomo. Punto.
«Viene introdotto anche un meccanismo di accertamento sanitario temporaneo obbligatorio nei casi in cui, anche in assenza di flagranza, emergano fondati motivi per ritenere che sussista un concreto ed attuale rischio per la vita o l’integrità fisica e psichica della vittima». Questo disegno di legge scomoda addirittura il diritto costituzionale di rifiutare qualunque trattamento sanitario, imponendo un accertamento sanitario temporaneo (come se ne esistessero di permanenti), la cui necessità verrebbe valutata non da medici – come la Legge 833 del 1978 impone – bensì da un magistrato e/o dalla polizia giudiziaria, qualora «emergano fondati motivi per ritenere che le condotte criminose possano essere reiterate ponendo in grave e attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa […] con obbligo di seguire percorsi psicoterapici». Il disegno di legge prevede cioè un’azione di contenimento sanitaria nei confronti di un soggetto pericoloso che dovrebbe essere contenuto con un’azione cautelare penale, impone un accertamento diagnostico (o terapeutico?) nella convinzione che chi agisce violenza (contro le donne) deve essere malato. Naturalmente da un punto di vista giuridico emerge immediatamente un vulnus della presunzione d’innocenza, cui subito si appella l’avvocato che paventa l’esistenza dei “tribunali femministi” di cui sopra. Il vulnus più grave, però, non riguarda l’ambito giuridico ma quello della rilevanza sociale e culturale della violenza di genere: gli uomini che uccidono o tentano di uccidere le proprie compagne vengono visti come malati, nonostante il loro comportamento sia perfettamente inquadrabile nella cultura patriarcale che gli – e ci – è stata insegnata.
Se da un lato gli avvocati – e le avvocate – insorgono paladini/e della presunzione d’innocenza, dall’altro lato i/ le professionisti/e di psicologia e psichiatria esultano per aver finalmente trovato anche loro una collocazione retribuita all’interno del ministero della giustizia, così come tempo fa hanno esultato i mediatori. D’altra parte è ormai abitudine diffusa nei tribunali abusare delle perizie psichiatriche, sia in ambito civile sia in ambito penale, soprattutto in tema di femminicidio e di affidamento dei figli minorenni al momento della separazione coniugale – prassi anche queste denunciate nella loro gravità dalla Commissione parlamentare sul femminicidio. Ma in questo caso si fa di più: il disegno di legge inventa una misura cautelare sanitaria nel caso «di fondato pericolo di reiterazione delle condotte criminose che pongono in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa»; ed inoltre si prevede che la polizia giudiziaria, per assumere informazioni dalla persona offesa denunciante, si avvalga «dell’ausilio di un esperto di psichiatria ovvero psicologia forense», presupponendo quindi l’esigenza di un aiuto psicologico/psichiatrico anche per la persona che denuncia un reato, o forse addirittura l’esigenza di indagarne psicologicamente la veridicità delle affermazioni. Addirittura – dimostrando una fiducia davvero esagerata nei confronti della psichiatria/psicologia forense, oltre che una convinzione di malattia mentale diffusa – il disegno di legge pretende di introdurre la possibilità di perizia psichiatrica «per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche», cosa che attualmente è espressamente vietata dal codice di procedura penale (art. 220) tranne che nei riguardi dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza.
Da questa proposta legislativa viene fuori l’idea di un Paese incapace di vedere la violenza per quello che è: un profondissimo problema culturale collettivo che, in quanto tale, può essere risolto esclusivamente con forti interventi sulla cultura.
Viene da domandarsi chi ha presentato questo geniale progetto legislativo. Primo firmatario è Renato Ancorotti, aderente a Fratelli d’Italia, 70 anni, di professione industriale nel campo della cosmetica, già firmatario di un ddl volto ad agevolare il recupero dei crediti, uno volto ad istituire il registro nazionale degli acconciatori, e uno volto a modificare la legge sulla disciplina dell’attività di estetica; coerentemente con le sue competenze professionali ha fatto vari interventi parlamentari in tema di commercio e industria; e poi, in base a competenze ignote, è diventato membro della Commissione parlamentare sul femminicidio e il 4 giugno scorso ha ritenuto di presentare il disegno di legge di cui parliamo. I cofirmatari sono quasi tutti aderenti a Fratelli d’Italia, più tre dei gruppi civici d’Italia e uno del gruppo Lega. È davvero difficile quindi comprendere quali siano i motivi, le riflessioni, gli studi, le consultazioni, che abbiano spinto il senatore Ancorotti a proporre questa modifica legislativa. È altrettanto difficile prevedere se questa proposta avrà un seguito o rimarrà inerte all’esame della Commissione giustizia.
È però facile dedurre che l’Italia non vuole intraprendere le uniche strade che davvero produrrebbero un miglioramento nelle relazioni tra i generi. Basta guardare la Spagna, che a partire dalla Ley organica del 2004 ha adottato un approccio olistico nei confronti della violenza maschile, intervenendo non solo a livello penale e procedurale ma anche e soprattutto a livello formativo e sociale, coltivando non solo l’obiettivo di proteggere le donne e punire i violenti, ma anche e soprattutto di proporre alle giovani generazioni una cultura realmente egalitaria che faccia apparire semplicemente insensata e inutile la violenza basata sul genere. La Spagna ha fatto una scelta consapevole, una scelta che peraltro dimostra i suoi effetti nelle statistiche a distanza di vent’anni. L’Italia invece si ostina a negare la realtà: è una scelta anche questa. Una scelta che traspare in maniera fin troppo evidente dalle parole di questo disegno di legge.
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