Mondo/ Costruttrici di pace - Dalle periferie del mondo tante storie sconosciute contribuiscono a realizzare convivenze nel rispetto tra i popoli
Providenti Giovanna Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2005
Accogliendo l’invito d’Antonietta Potente di “raccogliere e lavorare con frammenti di storie e di riconoscere in essi la profezia che tutti i giusti hanno coltivato nel tempo”, in questo breve articolo propongo un viaggio tra frammenti di storie piccole che stanno cambiando il mondo. Le protagoniste sono tutte donne, e l’ambiente in cui si svolge l’azione, pur a distanza, ha un tragico punto in comune: la sofferenza materiale di contesti in cui vigono povertà, guerra, e mancanza di cibo, acqua e medicine, oltre che di libertà. Sono donne che hanno trasformato la sofferenza in forza, determinate a fare qualcosa per evitare che tanto dolore possa ripetersi ancora. Sono donne ai margini, talvolta “le più dimenticate tra i dimenticati”, che sanno che la radice dell’oppressione è culturale e che non basta sradicare.
E’ necessario anche seminare, e a partire dal terreno a disposizione. Come le donne indigene del Chiapas: “Il lavoro di molte indigene a partire dalla rivolta zapatista è stato proprio quello di analizzare la propria vita e cercare di definire quali sono le usanze da mantenere e i diritti da ottenere”. Sono donne, che si oppongono alle guerre di casa propria: “vogliamo il ritiro immediato delle forze armate del malgoverno dei nostri villaggi e delle nostre regioni” (Donne di Mais, p. 188 e 190). E lo fanno spontaneamente, con “azioni modeste”, formando associazioni e cooperative, non per gloria, ma per necessità. Sono donne di cui non parlano i grandi media, né i libri di storia.
Le contadine di Greve
Come è già stato per le donne ribellatisi a guerre ormai passate: non sarebbe stato possibile sapere nulla delle contadine di Greve, in Toscana, che nella primavera del 1917, organizzarono una spontanea e illegale marcia contro la guerra, coinvolgendo gran parte delle donne di tutte le frazioni limitrofe, se un poeta, Gallileo Gagli, non le avesse raccontate in rima: “Sta a noi troncar la guerra, al debol sesso/libero sempre, e non al sesso forte/che dalla ferrea disciplina è oppresso:/chi si ribella è condannato a morte./Ma a noi che possono fare? A noi è permesso/di lamentarci della nostra sorte./Andiamo al Capoluogo e protestiamo/e il nostro grido sia: li rivogliamo!”(R.Bianchi, p. 58). Un simile spirito ho ritrovato nelle tante storie raccontate nel recente libro documentario Donne contro le guerre di Marlène Tuininga, che si è recata in 18 paesi del mondo raccogliendo racconti di donne che, in vario modo, avendo ritrovato la possibilità di essere “libere sempre”, vogliono “troncar la guerra”.
Ciò che emerge è al tempo stesso la semplicità e profondità del linguaggio portato (non soltanto con parole, ma con tutto il corpo) da queste donne, che dal lamento passano all’azione e a una parola per niente scontata, anzi spesso completamente dirompente rispetto al contesto, dando un importante strappo a culture e tradizioni retoriche e oppressive, nei confronti delle donne come degli uomini: “a ogni sofferenza di una donna corrisponde, intorno a lei, una sofferenza maschile speculare”, dice la psichiatra marocchina Rita El Khayat, da anni impegnata per migliorare i rapporti tra uomini e donne in Marocco ed Algeria, dove vige la sharia, e anche dove i movimenti di liberazione delle donne sono tanti, anche tra le musulmane.
“Poi ho capito che si doveva osare, creare”
Rottura rispetto al contesto significa trovare soluzioni nonviolente ai conflitti, ovvero guardare oltre le dicotomie, creare nuove alleanze, immaginare nuovi scenari, lanciare sfide a chi edifica barriere e pone divieti, osare liberare il proprio essere interiore: “Mi ero battuta per 12 anni in una guerra civile che aveva fatto 80mila morti – tra cui molte donne – e mi toccava constatare che nulla era cambiato nei rapporti tra uomini e donne. Alla fine ho capito che bisognava ripartire su basi completamente nuove. Creare, osare, immaginare. La solidarietà tra donne è stata la mia ispirazione, e oggi lavoro con una prospettiva, in qualche sorta, di rivoluzione interiore”, dice la salvadoregna Gloria Guzman, vice direttrice di Las Dignas, una associazione di donne impegnate “per la dignità e la partecipazione delle donne in tutti gli ambiti della vita sociale”, e che lotta contro l’impunità, in un tessuto sociale in cui corruzione delle alte sfere, delinquenza, violenza contro le donne sono all’ordine del giorno, in un paese come il Salvador, emblema della così detta “società duale”: da una parte la minoranza di ricchi “che va di fretta”, e dall’altra i sempre più poveri, nonostante la “dollarizzazione” e un andamento positivo della “macroeconomia” (p. 113).
Una preziosa fonte di coraggio
Il viaggio che Marlene Tuininga ci propone, tra le moltissime associazioni di donne presenti nel Terzomondo, risulta una preziosa fonte della resistenza e del coraggio di donne che trovano strade alternative per contrastare culture oppressive, concausa di povertà, guerra, epidemie. A Bujumbura, in Burundi, Jeanne Gapiya, sieropositiva, figlio e marito morti di Aids, intervenendo in cattedrale durante le intenzioni di preghiera, rivela la realtà della propria malattia sfidando la morale dominante e innescando un processo di svolta nel proprio paese: “A partire da questo vero e proprio atto liberatorio in un contesto in cui sempre più persone morivano nel silenzio e nella vergogna, nel Paese tutto inizia a sbloccarsi. La sua associazione viene intervistata in televisione e invitata a organizzare riunioni informative sull’Aids, anche nelle scuole. Il governo decide di rimborsare ai malati una parte delle cure. E, rivelandosi una perfetta negoziatrice, Jeanne riesce a importare, anche durante il periodo dell’embargo, le medicine per curare le malattie legate all’Aids a prezzi molto più bassi che negli altri paesi dell’Africa e a sbloccare alcuni fondi” (p. 100).
La forza dell’unione interetnica
Burundi, Ruanda, paesi massacrati dalla guerra “interetnica”, in cui “la speranza di vita deve rinnovarsi ogni mattina”, e in cui donne di entrambe le etnie si mettono insieme per costruire “la casa di una vedova tutsi e dei suoi cinque figli, fuggiti dal quartiere quando l’esercito ci ha tempestato di granate per cacciare i ribelli hutu”. Le donne del Ruanda, che alla Conferenza di Pechino del 1995 hanno fatto sentire “la loro determinazione di vivere” di fronte alla devastazione del proprio paese, non solo si sono costituite in associazioni interetniche, ma nel 1997 invitando anche le sorelle del resto d’Africa, hanno promulgato la “Dichiarazione di Kigali”, in cui si chiede ai governi di “riconoscere il ruolo tradizionale della donna nella salvaguardia della pace” e di “dare la precedenza alle politiche e ai programmi per lo sradicamento della povertà”. “Una convinzione e una rivendicazione – scrive Marlène Tuininga – frutto della pratica: sul posto, il dinamismo delle donne ruandesi si traduce nella creazione e nel rilancio di tutta una serie di associazioni... per affrontare i problemi più urgenti – cure mediche, conforto, aiuti alimentari, ricostruzione”(p. 78).
Ricchi grazie alle donazioni estere
Un simile dinamismo si incontra anche tra le donne del Sudan, che nel 2000 hanno redatto, a Nairobi, una “agenda minima delle donne per la pace”, rivolta alla cessazione del reclutamento di minori di 18 anni, di rapimenti di donne e delle violenze a loro danno, di bombardamenti di siti civili, e al rispetto delle diversità culturali, religiose ed etniche. In un testo dal titolo “Il grido di una madre per una pace duratura”, ecco cosa scrive una di queste donne impegnate: “Qualcuno pensa che il conflitto in Sudan sia un affare interno. È falso. È ora che tutti si sveglino. I donatori devono rendersi conto che grazie alle loro donazioni ci sono persone che conducono una vita lussuosa e hanno tutto l’interesse che questa guerra continui”(p. 69).
E che l’armonia regni
Altra rete di donne di paesi africani in guerra tra loro, Liberia, Guinea e Sierra Leone, è “Maerwopnet”, la cui presidente così si rivolge agli uomini di governo: “Noi donne non abbiamo più lacrime per la morte dei nostri figli perchè non abbiamo più acqua nei nostri occhi. Allora vogliamo alzarci in piedi. D’ora in poi ci batteremo per far regnare l’armonia tra i nostri tre Paesi. Perché tornino a essere uno solo, perché tutti possiamo essere felici di vivere qui. Da questo momento, ogni mattina ci sveglieremo chiedendoci: Cosa posso fare oggi per la pace? Sappiate, signori responsabili, che noi donne non metteremo mai fine a questa lotta. Vi invitiamo a sedervi, come i nostri antenati, sotto l’albero delle parole, e a discutere”(p. 59).
Le israeliane e le palestinesi
L’alleanza tra le donne africane appartenenti a paesi in guerra e a diverse etnie ci ricorda un’altra importante alleanza tra donne: quella tra palestinesi e israeliane, che da più di 15 anni hanno dato vita a una “Coalizione di donne per una pace giusta”. Tuininga racconta delle “azioni modeste e regolari”: come raccogliere olive e vendemmiare insieme nei campi di proprietà palestinese, a cui i coloni armati di fucile impediscono l’accesso; farsi visita a vicenda; fondare associazioni miste. Nurit Peled-Elhanan, fondatrice di un’associazione di genitori vittime composta da israeliani e palestinesi, così si esprime: “Il conflitto è tra quelli che vogliono la pace e quelli che vogliono la guerra. Il mio popolo sono quelli che vogliono la pace. Le mie sorelle sono le madri in lutto, israeliane e palestinesi, che vivono in Israele e a Gaza, e nei campi profughi. I miei fratelli sono i padri che cercano di difendere i propri figli contro questa crudele occupazione e che, come me, non ci sono riusciti. Anche se siamo nati in una storia diversa e parliamo un’altra lingua, le cose che ci uniscono sono più importanti di quelle che ci dividono” (p. 211).
Le Donne in nero
A proposito delle iniziative di donne in Palestina-Israele non potrei dimenticare di citare il lavoro delle Donne in Nero, di cui viene data ampia documentazione in un altro libro, uscito recentemente: “Oltre la danza macabra. No alla guerra no al terrorismo” di Luisa Morgantini, che ha vissuto in prima persona i molti incontri, politici e privati tra donne ‘nemiche’, ed è stata anche tra le donne afgane, del cui attivo impegno per la propria autodeterminazione e crescita poco hanno parlato i mass-media, interessati più ai loro burqa che a quello che di vivo ci sta dentro. Al testo di Morgantini, alla sfida di gruppi di donne per la pace lascio la conclusione di questo breve articolo, chiedendo venia per le storie dei molti gruppi di donne che non ho avuto spazio per raccontare: “La nostra sfida è andare oltre la relazione e collocare il nostro agire all’interno di processi storici di cui vogliamo essere soggetti, così come sono soggetti le donne afgane, palestinesi, israeliane, curde, turche, croate, bosniache, serbe, algerine e tante e tante che... non tacciono e non si fermano un istante per praticare diritti e giustizia” (p. 188).
* Ricercatrice presso l’Università Roma Tre, si occupa di studi sulla pace e di genere, in particolare nella prospettiva pedagogica
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