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Problemi etici nelle applicazioni biotecnologiche

Problemi etici nelle applicazioni biotecnologiche

Parliamo di bioetica - La comunità scientifica internazionale è chiamata a tener fermi dei limiti e la riflessione etica è volta a delineare il confine tra possibile e lecito

La Torre Maria Antonietta Lunedi, 12/04/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2010

Maria Antonietta La Torre

Istituto Italiano di Bioetica

www.istitutobioetica.org



Con il temine “biotecnologie” ci si riferisce ai risultati della manipolazione in vitro del Dna e della fusione cellulare di organismi che non appartengono alla medesima “famiglia” tassonomica. La possibilità di manipolazione del Dna costituisce uno degli avanzamenti più straordinari della ricerca degli ultimi decenni, ma solleva problemi morali di pari rilevanza. Come per ogni progresso tecno-scientifico, i dubbi non sono sulla “cosa in sé”, bensì sulla sua applicazione e magari sul suo utilizzo a fini di profitto.

Sul piano generale la responsabilità dell’umanità che ha appreso ad alterare la materia vivente nella sua struttura propria, con possibili conseguenze sulla natura stessa del vivente, è evidentemente assai maggiore di quella derivante dalla pratica di incrociare sementi o animali non-umani diffusa in passato: essa aumenta in proporzione alla crescita del potere di controllo sull’ambiente e sull’uomo stesso che è oggi in grado di creare organismi che sono “transpecifici”, ossia che si collocano sul “confine” tra diverse specie. Pertanto la vigilanza della comunità scientifica, ma anche della società civile, in tali settori deve essere costante.

È nostro parere, tuttavia, che la questione, proprio per la sua complessità, vada affrontata con opportuni distinguo.

Quando, infatti, si progetta l’utilizzo di tali tecniche al fine di produrre farmaci personalizzati, o, ancor più, l’ingegneria genetica è diretta alla scoperta di terapie per patologie gravi, essa costituisce, a nostro avviso, addirittura un dovere morale, al quale dovrebbero esser chiamati a contribuire con adeguati finanziamenti gli enti pubblici e i governi. Non vi sono infatti, riteniamo, giustificazioni per il rifiuto di mettere in opera tutte le possibilità per migliorare la salute umana, per eliminare motivi di disagio, per contribuire al benessere. Le resistenze sono spesso frutto di timori ingiustificati, di pregiudizi ideologici, di diffidenza verso il potere della tecnica o della ricerca scientifica, che già in passato si sono rivelati molte volte infondati, e in definitiva di una oscurantista paura del “nuovo”. Anche in questo ambito, naturalmente, la comunità scientifica internazionale è chiamata a tener fermi dei limiti e la riflessione etica è proprio volta a delineare il confine tra possibile e lecito: si pensi, a titolo di esempio alla clonazione umana, sulla proibizione della quale vi è un consenso fortunatamente unanime.

Maggior cautela andrebbe invece auspicata quando queste tecniche siano applicate in ambito agroalimentare. Infatti, mentre la manipolazione del Dna di un individuo affetto da una grave patologia non ha, a meno che non si intervenga sulle cellule germinali, effetti su altri individui della stessa specie, quando si immettano nell’ambiente sementi modificate, queste si riprodurranno e le loro caratteristiche potranno trasferirsi alle specie vicine. Tra l’altro, specie modificate per resistere meglio ai parassiti, risulteranno probabilmente prevalenti rispetto a quelle autoctone. Potremmo dire che in tal caso si interferisce con lo schema evolutivo delle specie. Certamente l’umanità ha interferito già in molti modi e non si vuole qui perseguire la retorica della natura incontaminata, ormai pressoché inesistente, o del piano intangibile e imperscrutabile della “Madre terra”, ma soltanto far riflettere che in questo modo si altera la catena alimentare e non si tiene conto del principio di precauzione, che invita non a una generica prudenza, bensì alla dimostrazione dell’assenza di rischio. Tra l’altro, le monoculture geneticamente modificate, proprio in quanto tendono a sopraffare le altre specie, determinano un’uniformità non auspicabile, poiché un ecosistema vario ha maggiori possibilità di sopravvivere alle alterazioni e di conservare un equilibrio: dunque è in questione la tutela della biodiversità. D’altronde, se si è avvertito il bisogno di stipulare il Protocollo di Cartagena, che stabilisce norme e sollecita attenzione per la biosicurezza in occasione di movimenti transfrontalieri di organismi viventi modificati, è perché evidentemente si ritiene che sia assai difficile il controllo o il ripristino quando siano avvenute “contaminazioni”. Insomma non ci si può non interrogare sulla liceità di modificazioni che saranno irreversibili e anche dell’assegnazione di brevetti su tali organismi, che, una volta registrati grazie alla modifica di anche un solo gene, garantiscono la proprietà e quindi il profitto. Ciò solleva questioni di giustizia mondiale, al punto che taluni accusano di “biopirateria” le multinazionali dell’agrochimica, le quali si appropriano di un patrimonio comune, la materia vivente, e ne fanno una proprietà privata commerciabile. Appaiono evidenti le implicazioni politiche di vasta portata dell’acquisizione di un monopolio su talune specie vegetali/alimentari ai fini del controllo dell’alimentazione e quindi dell’economia mondiale.

Come si vede, l’uso delle biotecnologie pone questioni di non poco conto non solo relativamente ai diritti umani, ma anche ai diritti delle generazioni future a ricevere in eredità un pianeta idoneo alla loro sopravvivenza, alla tutela della biodiversità e, infine, quando si progetta di utilizzare le altre specie viventi non solo per la sperimentazione, ma addirittura per la creazione di “parti di ricambio” per gli esseri umani, anche alla giustizia interspecifica.



(12 aprile 2010)

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