Cina / prima parte - La lunga marcia delle donne cinesi per la conquista dei loro diritti, dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni della prima guerra mondiale
Cristina Carpinelli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2007
I primi passi d’emancipazione femminile in Cina sono connessi alle rivolte dei Taiping (1851-1864) contro l’impero Manchu e dei Boxer (1899-1901) contro i colonizzatori occidentali. I Taiping fondarono un proprio stato indipendente, “il Regno Celeste della Grande Pace”, con capitale l’antica città imperiale di Nanchino. Si caratterizzavano come una setta (la Società degli Adoratori di Dio), che aveva elaborato una dottrina religiosa cristiana, con forti elementi sincretistici. Predicava l’egualitarismo, il monoteismo e la volontà di risollevare il prestigio e la sovranità della Cina sconvolta dalle guerre dell’oppio. Il movimento dei Taiping si sviluppò soprattutto nello Guanxi, una provincia sud-occidentale poverissima, notevolmente esposta agli influssi dell’Occidente grazie al porto di Canton. Il fondatore del movimento, Hong Xiuquan, era entrato in contatto con i missionari cristiani, e sulla base di una visione mistico-religiosa aveva fondato la nuova dinastia del Taiping Tianguo, incentrata su un sistema di vita comune e di comunione di tutti beni. Dentro questo sistema i diritti delle donne erano stati valorizzati: esse potevano scegliere liberamente il proprio sposo, girare da sole per le strade, sostenere gli esami per diventare funzionari e svolgere gli stessi lavori degli uomini a parità di retribuzione. I Taiping abolirono il bendaggio dei piedi, il concubinaggio e la tratta delle donne. Permisero a quest’ultime di entrare nell’esercito per combattere le truppe imperiali e, quando il Regno dei Taiping crollò, alcune di loro preferirono morire in battaglia piuttosto che tornare alla precedente vita di schiavitù. La promulgazione della “Legge sulla Terra”, che espropriava i grandi proprietari terrieri e che ripartiva le terre per nucleo familiare, tenuto conto del numero dei membri che lo componevano (incluse le donne), nonché l’abolizione del commercio privato, contrastavano con gli interessi dei feudatari manchu e dell’autocrazia imperiale. Questi, sostenuti dalle potenze occidentali, preoccupate a loro volta per i danni che il disordine diffusosi in Cina aveva arrecato alle loro attività commerciali, li attaccarono, soffocando così nel sangue “il Celeste Impero”. Nonostante l’eroica lotta, gli “Adoratori di Dio” non vinsero i feudatari manchu e gli interventisti stranieri, ma scossero le basi del sistema feudale su un ampio territorio della Cina e rappresentarono un’importante tappa storica della lotta antifeudale, determinando inoltre tra le masse popolari il risveglio della coscienza nazionale che sfociò poi nella rivoluzione del 1911.
Similmente le donne parteciparono con grande determinazione alla rivolta dei Boxer contro gli stranieri accusati di depredare la Cina, a causa della corruzione e della debolezza del governo. Le donne dei Boxer erano organizzate in reparti militari femminili suddivisi per colore in base all’età e/o allo stato civile (lanterne rosse: donne giovani e nubili; lanterne bianche: donne sposate; lanterne verdi: vedove; lanterne nere: donne anziane), ciascuno con compiti diversi: spionaggio, sabotaggio, cura dei feriti. Nel giugno del 1900, gli Yihetuan (o Boxer) si unirono all’esercito imperiale, quando l’Imperatrice Cixi dichiarò guerra ai Giapponesi e agli altri stati occidentali. Ma l’alleanza delle otto potenze straniere, che occupavano tredici delle diciotto regioni cinesi, sconfisse l’esercito imperiale, e le conseguenze della guerra furono per il paese il pagamento di una notevole indennità, la concessione agli stati stranieri del diritto di far risiedere proprie truppe in territorio cinese e la punizione dei principali esponenti dei Boxer.
All’inizio del XX secolo si era ormai compiuto il processo di trasformazione della Cina in semi-colonia delle potenze imperialiste. Malgrado ciò, la progressiva e forzata apertura dell’Impero cinese verso l’Occidente, favorì il varo di alcune riforme politiche e sociali. Quella riguardante il sistema educativo ebbe un ruolo fondamentale nel percorso d’emancipazione femminile. Dal 1905 nel paese erano sorte numerose scuole straniere gestite da missionari, gradualmente aperte anche alle donne cinesi, per lo più ragazze appartenenti a ricche famiglie. La scuola fu per loro il campo di battaglia della rivolta femminile contro la tradizione confuciana. Questo primo movimento femminile, favorito dalla penetrazione di modelli culturali occidentali, aveva come suo epicentro la rivendicazione di alcuni diritti fondamentali: accesso all’istruzione, libera scelta del proprio sposo, possibilità d’intraprendere affari e di possedere proprietà personali, libertà di movimento, riconoscimento di un ruolo che non fosse solo quello di mogli e madri. Il contatto di queste giovani della borghesia con gli studenti oppositori del traballante Impero cinese fece sì che il piano d’emancipazione della donna fosse nel tempo sempre più intrecciato con la lotta per l’affermazione della Repubblica prefigurata da Sun Yat-sen. Molte furono all’epoca le cinesi che aderirono ad “Alleanza rivoluzionaria” (in seguito Guomintang), che svolse attività di propaganda contro l’Impero cinese essenzialmente in Giappone, dove erano emigrati molti studenti dissidenti (donne comprese). Punto di riferimento delle studentesse cinesi fu la femminista giapponese Utako Shimoda, fondatrice di una delle più antiche scuole femminili del Giappone, l’Università Jissei. Questa donna ebbe un ruolo centrale nel collegare la questione femminile con quella nazionale cinese nei primi anni del secolo XX. A tale scopo usò una serie di strategie per rendere consapevoli i cinesi del nesso cruciale tra istruzione femminile e nazionalismo. Nel 1901 fondò a Shanghai la casa editrice “Società per il Rinnovamento”, che pubblicava la rivista “Il Continente”, ampiamente letta sia a Shanghai che nelle province, dove lei stessa scrisse diversi articoli propugnando la sua filosofia pedagogica, basata sulla necessità dell’istruzione e del lavoro delle donne “per migliorare non solo se stesse ma anche il paese”. La casa editrice aveva, non a caso, lo stesso nome dell’organizzazione politica rivoluzionaria, la “Società per il rinnovamento della Cina”, sorta a Honolulu nel 1894 per opera di Sun Yat-sen e che sviluppò la sua attività tra gli emigrati cinesi, dapprima ponendosi come compito prioritario l’abbattimento violento della monarchia Manchu e, solo in seguito, concentrando in Cina la lotta contro tutte le forze feudali e contro i capitalisti stranieri che sostenevano la monarchia.
Tra le studentesse cinesi che nel 1904 frequentarono la scuola della Shimoda, vi era Qiu Jin, che si era unita molto presto agli studenti rivoluzionari per “cacciare i mancesi, oppressori del popolo Han, e fondare la Repubblica”. Tornata in Cina, Qiu Jin, seguendo le orme del pensiero della femminista giapponese, s’impegnò a diffondere il principio che per creare una nazione forte, non sottomessa allo sfruttatore straniero, fosse necessario il contributo delle donne che dovevano studiare e lavorare. In tal modo, gli ideali rivoluzionari di miglioramento della condizione femminile sostenuti da Qiu Jin (e per questo decapitata nel 1907), divulgati tramite “Il Giornale delle donne” (da lei stessa creato), trovarono un impulso decisivo dall’unione con le forze nazionaliste. L’avvento della Repubblica nel 1911 non portò vantaggi al cammino d’emancipazione intrapreso dalle donne. Quest’ultime, ad esempio, non ottennero il diritto di voto, e per questa ragione dal 1912 si erano sviluppati movimenti femministi di carattere suffragista, che lavorarono attivamente anche in seno al Guomindang. Gli avvenimenti successivi alla prima guerra mondiale, spinsero molte di loro ad aderire in modo massiccio al “movimento del 4 maggio” (1919) nato come reazione all’accettazione da parte cinese delle “21 richieste” e al successivo accordo nipponico-americano sul riconoscimento di “speciali interessi” del Giappone in Cina. In questo periodo, una donna in particolare si distinse per il suo impegno nella lotta per i diritti femminili: l’avvocatessa Xi Liang, fondatrice sia della “Lega per la protezione dei diritti civili”, impegnata nella difesa dei perseguitati politici, sia dell’“Associazione per la Salvezza Nazionale”, che dava appoggio agli scioperanti nelle fabbriche. A differenza dei movimenti precedenti, le donne attiviste inserivano ora, nella sfera delle loro rivendicazioni, anche i diritti civili, pur sempre entro finalità fortemente nazionaliste.
Ciò che emerse, tuttavia, come dato decisivo per le successive conquiste femminili, fu la comparsa sulla scena nazionale di un nuovo soggetto collettivo: le operaie delle industrie tessili. Negli anni della guerra, l’industria nazionale si accrebbe notevolmente come conseguenza della contrazione delle importazioni delle merci europee. Molte furono le donne che entrarono in fabbrica, e per costoro il cammino d’emancipazione passò attraverso il lavoro e le lotte sindacali, soprattutto nelle zone più industrializzate e sottoposte a maggiore sfruttamento come la regione del Canton e il Sud del paese. (seconda parte il prossimo mese)
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