Domenica, 10/04/2011 - In chimica esistono elementi che non possono essere mischiati tra loro, pena la produzione di composti inutilizzabili o di sostanze che danno vita a veri e propri disastri. Essere giovani in cerca di lavoro e abitare nel Belpaese sono due condizioni che se coesistono producono frustrazione, insicurezza, dipendenza. Il livello di insoddisfazione dei giovani cresce ad un ritmo più che sostenuto e si scontra con un governo sordo e miope, che si riempie la bocca di parole quali “meritocrazia” e “flessibilità”. La società è cambiata e l’idea di lavorare tutta la vita nello stesso posto ha perso sicuramente attrattiva. Ma la vera flessibilità è quella che il lavoratore o la lavoratrice sceglie, passando da un contratto indeterminato ad un altro sempre indeterminato però più conveniente. Ma oggi come oggi questa è pura fantascienza. Ovunque, ogni giorno, il precariato, lo sfruttamento, la regola del “dare tutto e darlo gratis”, si consolidano come l’unica possibilità di lavorare o di ottenere uno stage. L’indignazione e la sofferenza di una vita, che diventa precaria anch’essa se il lavoro non c’è o è ad intermittenza, fanno più effetto se sono gridate da più voci e da più corpi. Ed è per questo che ieri nelle città italiane sono sfilati in corteo stagisti, precari, ricercatori, imbufaliti anche se sfibrati, per dire ancora una volta che “il nostro tempo è adesso”. Io ero a Roma con loro e ho avuto il piacere di incontrare Teresa Di Martino, una dei 14 precari promotori dell’appello, che si è poi diffuso a macchia d’olio, supportato da decine di reti su tutto il territorio italiano. “L’'appello nasce con il chiaro obiettivo di mettere al centro dell'agenda politica il tema della precarietà di lavoro e di vita, condizione materiale e simbolica che attraversa intere generazioni e che è un problema che riguarda tutti, giovani e vecchi, studenti, lavoratori e pensionati. Mi auguro che la giornata di ieri rappresenti solo l'inizio di un percorso in cui lavoratrici e lavoratori che vivono la precarietà sulla propria pelle possano essere soggetti attivi nella discussione, tutt’altro che risolta, sui diritti del lavoro e sulle riforme necessarie al paese.” Subito dopo ho parlato con Simona Palese, una delle organizzatrici, che mi ha raccontato le tappe pre-manifestazione: “La macchina si è messa in moto dopo la sottoscrizione dell’appello da parte di numerose reti territoriali, alcuni legate a partiti politici, altre maggiormente tematiche. La partecipazione è stata veramente trasversale e partecipata, e per comodità ci siamo divisi in due gruppi di lavoro, uno sull’organizzazione e l’altro sulla comunicazione. Ci sono stati poi due incontri molto importanti a Roma nei quartieri di San lorenzo e del Pigneto, in cui nuove reti si sono aggiunte e la cittadinanza ha risposto con grande entusiasmo. Spero che questo gruppo di lavoro costituito ad hoc per la manifestazione diventi un movimento stabile, in cui i temi del reddito, del diritto alla casa e alla cultura siano sempre al primo posto.” Ultima voce, ma non per questo meno importante, quella di Valentina Greco di Donne di Classe, uno dei primi collettivi ad aderire all’appello. La prospettiva femminista del collettivo, che riflette in particolare di femminilizzazione del precariato e di diseguaglianza sul lavoro, dà una lettura critica sui temi di produzione e riproduzione. Valentina ha ricordato quanto il precariato svilisca l’anima delle persone: “E’ scandaloso dover fare le valigie perché il tuo Stato non ti permetter di avere una vita dignitosa nel paese dove sei nato. Bisogna parlare e discutere del lavoro riconnettendo questo tema con l’autodeterminazione dell’individuo. Il precariato assorbe le nostre vite, i corpi, le menti e decide al posto mio se mi posso permettere una vita sociale, che sia una birra con gli amici o uno spettacolo teatrale. In passato erano le donne quelle maggiormente disposte ad accettare lavori meno adatti alla loro qualifica, ma adesso lo sono anche gli uomini. Le donne restano però quelle più inclini ad essere maggiormente disponibili, riproducendo nell’ambiente di lavoro la naturale propensione alla cura dell’altro. Vorrei ricordare in questo senso anche le donne migranti, che passano la vita a svolgere lavori di cura sottopagati e che sono l’anello più debole di tutta la catena.” È difficile pensare di poter interloquire con questo governo, è folle pensare che il mercato prima o poi assorbirà la nostra richiesta di un lavoro (decente). Quello che è certo è che noi siamo il futuro di questo paese e prima o poi dovranno prenderne atto.
Lascia un Commento