POSITION PAPER / 2. Povertà, protezione sociale e servizi sociali. Il cambiamento che vogliamo
Un approfondimento del documento “Il cambiamento che vogliamo. Proposte femministe a 25 anni da Pechino” (pubblicato il 9 luglio)
Lunedi, 27/07/2020 - 2. Povertà, protezione sociale e servizi sociali. Il cambiamento che vogliamo
“La correlazione tra la protezione dei diritti umani e l’accesso al lavoro dignitoso e ai servizi pubblici è centrale per ridurre l’esposizione alle povertà: se adeguatamente finanziati e organizzati per essere sensibili al genere, i servizi pubblici possono svolgere un ruolo trasformativo nella creazione di società più giuste ed eque”.
È questo l’assunto da cui parte il secondo capitolo – dedicato a “Povertà, protezione sociale e servizi sociali” – del Position Paper “Il cambiamento che vogliamo. Proposte femministe a 25 anni da Pechino”, pubblicato lo scorso 9 luglio da un ampio gruppo di organizzazioni femministe e femminili, del terzo settore, della cooperazione allo sviluppo e del privato sociale coordinate da D.i.Re, Donne in rete contro la violenza.
Programmare e gestire servizi pubblici capaci di rispondere ai bisogni delle donne e costruire condizioni che permettano loro di raggiungere una effettiva uguaglianza di opportunità con gli uomini, richiede necessariamente, scrivono le esperte, “un cambio di paradigma nei sistemi di governance che regolano la partecipazione delle donne alle politiche pubbliche, intervenendo sulle pre-condizioni che la ostacolano”, ovvero su “lavoro dignitoso, salute, servizi di cura e abitativi carenti e territorialmente disomogenei. In questo quadro, uno degli elementi fondanti è il processo di ridefinizione dei servizi pubblici a partire dai bisogni espressi, perché siano sensibili al genere e co-costruiti dalle donne secondo modelli di governance collaborativa”.
Per poter intervenire occorre prendere in considerazione “la complessità della povertà femminile”, perché essa “è spesso interconnessa ad altri aspetti economici e socioculturali, ma tutto questo non si rileva dai rapporti ISTAT dai quali apprendiamo soltanto che la povertà è in crescita”, segnalano le autrici del Position Paper. “Non esistono dati scorporati per genere che permettano di conoscere l’incidenza della povertà tra le minori d’età o tra le donne con background migratorio”.
Per le donne migranti, richiedenti asilo e rifugiate la carenza di dati si combina con “barriere legali ed economiche che ostacolano le donne con background migratorio nell’accesso alla protezione sociale, ma nessuno se ne fa carico”, denuncia il Position Paper. “La commercializzazione e burocratizzazione dei servizi sociali, i tagli delle risorse per i servizi impediscono di sviluppare politiche di attivazione della cittadinanza intesa come garanzia dei diritti e partecipazione sociale in risposta a dinamiche scaturite dall’intersezione tra l’appartenenza di genere e i processi migratori”.
Particolarmente grave è la carenza di informazioni riguardo alla condizione di povertà delle donne con disabilità, perché non sono disponibili dati specifici sulla loro condizione economica: “l’alto tasso di disoccupazione e di inattività suggerisce che esse sono esposte a un rischio di povertà più elevato rispetto alla popolazione femminile in generale e anche agli uomini con disabilità”, ipotizzano le esperte. “La legge 68/99 e le misure contro la povertà indicate dagli ultimi governi non hanno previsto misure efficaci per ridurre la situazione di povertà delle persone con disabilità. Al contrario, alcuni dispositivi messi in campo trattano le famiglie povere in cui una persona disabile è presente in modo meno favorevole rispetto ad altre famiglie”.
Per far sì che i servizi sociali siano in grado di rispondere ai bisogni di donne che sperimentano una molteplicità di condizioni discriminanti, il Position Paper richiede “un investimento in formazione del personale dei servizi sulla prospettiva intersezionale delle barriere strutturali e sui processi comuni di autodeterminazione individuale e collettiva”, al fine di “aprire i servizi stessi a forme di partecipazione sociale attiva e condivisa”.
Ed erano proprie queste “forme di partecipazione sociale attiva e condivisa” che avevano caratterizzato i consultori familiari – luoghi deputati alla salute più intima delle donne, quella legata alla sessualità e alla maternità, comprese la contraccezione, l’educazione sessuale e poi l’interruzione di gravidanza – quando vennero istituiti, sull’onda di esperienze autodeterminate dal movimento delle donne e nel quadro di una generale riforma del sistema sanitario nazionale con una attenzione specifica alla medicina del territorio e alla prevenzione sanitaria.
“La regionalizzazione e il progressivo definanziamento della sanità pubblica con il correlato incremento di quella privata, hanno eroso la capacità del Servizio Sanitario Nazionale di erogare servizi su base universalistica ed egualitaria ed introdotto concrete diseguaglianze di LEA tra regione e regione”, notano le autrici. Proprio i consultori hanno subito nel corso degli ultimi anni “una diminuzione costante del loro numero con una distribuzione disomogenea sul territorio nazionale”, aggravata dalla “diversità dei contesti organizzativi in cui operano” e dalla “continua carenza di personale e strumentazione adeguata” e dalla “mancanza di formazione di nuovo personale durante i corsi di specializzazione”.
Tutto ciò si combina con una “aggressione diretta ai diritti sessuali e riproduttivi delle donne portato avanti da forze politiche conservatrici di matrice cattolica estremista”, ha segnalato nella conferenza stampa di lancio del Position Paper Stefania Graziani, sociologa di SNOQ-Torino.
Ultima in ordine di tempo la decisione della Regione Umbria di obbligare al ricovero ospedaliero di 3 giorni le donne che decidono di interrompere la gravidanza con la RU486, al punto che la rete ProChoice, tra le autrici del Position Paper, ha organizzato il 2 luglio scorso un presidio davanti al Ministero della salute per “per sollecitare le istituzioni competenti a prendere immediati provvedimenti per tutelare e garantire i diritti sessuali e riproduttivi delle donne. Nel rispetto dell’art. 15 della Legge 194/78, chiediamo di garantire il diritto di accedere alle tecniche contraccettive e abortive più efficaci e aggiornate. In particolare chiediamo di sostenere le donne nell’accesso ai servizi medici che garantiscono l’aborto farmacologico e di reintrodurre i contraccettivi in Fascia A, ovvero nei farmaci essenziali e gratuiti”. Tutte proposte che il Position Paper fa proprie e rilancia, perché è “essenziale affrontare la salute sessuale e riproduttiva in modo integrato con povertà, diseguaglianze di genere e comportamenti sociali a rischio, ed è fondamentale un approccio di salute pubblica”.
In particolare il Position Paper nota che “a fronte di alcuni dati positivi, come la significativa riduzione del tasso di interruzione volontaria della gravidanza (IVG) nel corso degli anni”, documentata dalla relazione del Ministero della Salute per il 2018, “in molte regioni l’accesso all’IVG risulta estremamente difficoltoso, talvolta impossibile, a causa dell’altissimo ricorso da parte degli/delle operatori/trici all’obiezione di coscienza e la mancata, pur dovuta, riorganizzazione del servizio da parte dell’autorità sanitaria preposta”. Va invece proprio“incentivata la preferenza per l’IVG farmacologica, rendendola possibile fino a 63 giorni e con modalità domiciliare come nel resto d’Europa, con la possibilità di accedervi attraverso i consultori attrezzati e con personale formato”.
Forte anche delle rilevazioni sulla diversità dell’impatto del Covid19 su uomini e donne, il Position Paper ricorda come, “negli anni successivi al 1991 la ricerca ha iniziato a fornire sempre maggiori certezze sulle differenze, nelle stesse patologie, tra gli organismi maschili e femminili, a tutti i livelli – nei fattori di rischio, nella sintomatologia, negli esiti degli esami clinici, nei devices, nelle terapie e nei farmaci –e in tutti gli apparati”.
“E si parla di genere, e non di sesso”, sottolinea il Position Paper, “perché l’interazione tra la nostra identità sessuale e la realtà socio culturale e storica in cui tale identità insiste condiziona la nostra salute, l’accesso alle cure e la stessa modalità con cui le cure vengono somministrate”.
L’Italia è stata la prima nazione al mondo che si sia dotata di una legge sulla medicina di genere, confermata dal piano applicativo approvato il 13 giugno 2019 dal Ministero della Salute. Ma in realtà tutto è fermo, perché “ostacolato da carenze nella raccolta e nell’analisi dei dati disaggregata per genere ed età, nella formulazione di linee guida; nella formulazione dei testi universitari; e nella formazione del corpo studente, dei medici in attività di tutte le categorie e profili professionali”.
È dunque sul fronte della formazione e della ricerca che occorre intervenire con urgenza, cominciando dal contrasto alla “segregazione femminile nel mondo della ricerca”, intervenendo sia a livello verticale, ossia sulla presenza delle donne in posizioni apicali nella carriera accademica, sia a livello orizzontale, ovvero favorendo l’ingresso e il mantenimento delle donne nei settori lavorativi legati alla ricerca. Oggi si assiste invece a un fenomeno che in inglese prende il nome di leaky pipeline, “metafora dell’uscita progressiva delle donne dai percorsi di carriera accademica”.
E se è necessario affrontare la carenza di role model femminili, come ha intuito il progetto Donne nella scienza dell’Università di Trieste, perché essa “mina la possibilità di creare nuove reti e influisce sull’autostima delle donne e sui processi di concorrenza, che rimangono «neutrali» rispetto al genere”, il Position Paper va oltre, con tutta una serie di proposte molto concrete per contrastare quella che non esita a definire “resistenza al cambiamento”.
Si va dall’attivazione di “sistemi di monitoraggio e di follow-up come il bilancio di genere e la sua integrazione nel bilancio di ateneo e in tutti i documenti di governance” universitaria, alla promozione di un modello di ricerca “femminile”, soprattutto in relazione alla gestione dei tempi, “che includa: azioni di welfare che superino la conciliazione dei tempi vita-lavoro coniugata quasi sempre solo al femminile; telelavoro e smart- working; aumento di donne in posizioni chiave; un orientamento gender-sensitive per contrastare la segregazione orizzontale; la valorizzazione degli studi di genere e la promozione della presenza femminile nei percorsi formativi considerati tradizionalmente maschili”.
La formazione resta infatti un tassello imprescindibile per formare lavoratrici e lavoratori in grado di ideare e organizzare quei servizi pubblici orientati al genere e dotati di un approccio intersezionale che il Position Paper considera la chiave di volta per garantire i diritti umani universali, in particolare i diritti delle donne. Si tratta, conclude il capitolo del Position Paper “di promuovere un cambiamento culturale – soprattutto in relazione al target dei/delle docenti – attraverso la progettazione di percorsi formativi sulle tematiche di pari opportunità e contrasto alle discriminazioni, l’avvio di progetti su stereotipi di genere nelle scuole primarie”, senza dimenticare l’imprescindibile “revisione dei libri di testo utilizzati scuole italiane, che sono intrisi di stereotipi di genere, e l’adozione progressiva di un linguaggio non neutro”.
Come nel caso della medicina genere-specifica, anche per il linguaggio di genere il Ministero dell’istruzione, università e ricerca (MIUR) si è già dotato di apposite Linee guida: dovrebbero essere un punto di partenza, mentre invece, come spesso accade in Italia, restano lettera morta.
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