Venerdi, 23/04/2010 - Perché noi umani ci vestiamo? Certamente per coprirci e ripararci dall'ambiente in cui viviamo: dal caldo, dal freddo, dalle asperità di altro tipo.
Ovviamente questa esigenza elementare è andata incontro ad un'evoluzione culturale, per cui, a bisogni primari, si sono sovrapposte esigenze più complesse.
È così che l'abbigliamento è diventato uno strumento per comunicare chi siamo e cioè un linguaggio. Ma esso assume spesso anche il significato di una testimonianza: di uno status sociale, di una tradizione culturale, di un'appartenenza politica o religiosa.
Si potrebbe pensare che proprio per questi motivi, si ponga particolare accortezza a come ci si veste.
In realtà si verificano strane situazioni: da un lato si seguono, passivamente, delle mode che invece di proteggere il nostro corpo (esigenza elementare) lo danneggiano, smentendo la sua essenza primaria.
Se si pensa, poi, all'abbigliamento come ad un linguaggio, nel caso della moda, è come se ci facessimo mettere in bocca parole preconfezionate, omologanti, non pensate da noi. E qui occorre anche domandarsi se il modo di vestire nella società occidentale è libero o impone categorie estetiche e schemi culturali da cui è difficile affrancarsi.
Se invece facciamo riferimento alla categoria di testimonianza dobbiamo riconoscere che "essere alla moda" ci fa sentire membri di una comunità allargata, con lo status e la cultura che questa comunità ingloba, sottraendoci però alla responsabilità di testimonianze più individuali e per questo, forse impegnative.
La riflessione successiva è che da queste categorie non si sfugge: anche i maschi sono soggetti a abbigliamenti che rispondono a queste tacite regole. Per esempio, alla categoria della testimonianza, questa volta politica più che etnica, possiamo ascrivere la copertura del capo dei palestinesi. Appartenenze religiose ed etniche, vengono rappresentate con abbigliamenti che possono risultare restrittivi o massificanti. Che dire, infatti, dei giovani e piccoli ebrei maschi, di famiglie ultra ortodosse, col cappello nero? Suore cattoliche, ma anche preti ortodossi sono coperti da veli.
Non bisogna dimenticare l'immagine di molte donne in chemioterapia che perdono i capelli, e preferiscono coprirsi il capo con un foulard, piuttosto che usare la parrucca.
A queste vorrei aggiungere la categoria della sicurezza (tanto in voga) declinata in relazione all'abbigliamento: è indubbio che vada riaffermata l'importanza sociale dell'esposizione del viso, in pubblico, perché il soggetto possa essere riconosciuto e si possa instaurare un rapporto equilibrato, paritario. Ma allora perché sono permessi caschi integrali, che spesso sono strumento irrinunciabile di chi compie gesti criminosi, se non terroristici?
Il motivo di questo preambolo è per ritornare al discorso sul velo islamico. Riaffermato il concetto dell'importanza di potersi guardare negli occhi e possibilmente in viso, essenza della relazione e quindi della comunicazione, vorrei soffermarmi su alcune riflessioni, che intrecciano, talvolta in maniera ambigua le categorie che ho citato.
Molte donne, le femministe soprattutto, vedono in esso una mortificazione della donna musulmana da parte di maschi integralisti, che forzerebbero addirittura l'interpretazione del Corano, a questo scopo.
È indubbio che in un'epoca dove l'espressione della libertà è affidata all'immagine e quindi, in larga parte, a una cura dettagliata della persona e dell'abbigliamento, i canoni islamici possono essere una restrizione. Per le donne musulmane la scelta di come rappresentarsi è univoca: comodità, ma anche colori e forme di capelli abiti etc. sono interdette.
A mio avviso, colpevolizzare le donne islamiche che portano il velo, potrebbe risolversi in un ennesimo attacco alla donna. L'invito (anche in buona fede) da parte delle donne occidentali a quelle islamiche, a caricarsi del ruolo difficile e rivoluzionario, di sovvertire le regole, in contesti che sono parecchio rischiosi, dovrebbe essere pensato come una posizione elitaria, da parte dell'Occidente, che meriterebbe più di una riflessione.
Ma c'è anche un altro motivo che riconduce la scelta del velo nell'alveo della libertà di espressione: si legga a questo proposito Nevedi Orhan Pamuk.
Ataturk il presidente che volle fare della Turchia, uno stato laico, vietò tra l'altro il velo. Il divieto, imposto con la forza, fece traghettare il velo sulla sponda della testimonianza di un'opposizione ad un regime autoritario.
Pamuk nel capitolo 17 descrive uno spettacolo teatrale, dal titolo Patria e velo, che si conclude con una sparatoria sul pubblico e dei morti, al grido di: Viva la Repubblica! Viva l'esercito! Viva il popolo turco! Viva Ataturk!
Recita il testo:
"Quando giunse il momento, prese il chador nero dalla bacinella, lo fece vedere agli spettatori come se lo volesse stendere ad asciugare e lo aprì a bandiera. Fra gli sguardi stupiti della folla che cercava di prevedere cosa sarebbe successo, tirò fuori dalla tasca un accendino e gli diede fuoco dall'orlo. Ci fu un attimo di silenzio. Si sentì il fiato delle fiamme avvolgere il chador come se esplodesse. Tutta la sala si illuminò con una luce strana e spaventosa... Forse nessuno le prestava più attenzione quando raccontò perché la ragazza arrabbiata aveva buttato via il suo chador, spiegando che le capacità non solo delle persone ma anche dei popoli non stavano nel loro abbigliamento, bensì nella loro anima, e dicendo che adesso bisognava liberarsi del chador, del velo, del fez e del turbante, simboli dell'arretratezza spirituale, e correre verso l'Europa, incontro ai popoli civili e moderni..."
Poi alcuni studenti religiosi protestano e qualcuno apre il fuoco.
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