Sabato, 22/04/2017 - Ancora una volta la storia si ripete con le stesse modalità e ogniqualvolta l’argomento di discussione è l’autodeterminazione femminile in tema di maternità ci ritroviamo di fronte a posizioni istituzionali così ideologizzate che a farne le spese sono sempre e solo le donne.
Così è stato anche l’altro giorno, durante il question time in Parlamento, vertente su di un’interrogazione alla ministra della Salute, presentata dall’on. Eugenia Roccella, al riguardo della possibilità di praticare l’aborto farmacologico in appositi consultori, così come deliberato recentemente dalla giunta regionale del Lazio. Trattasi di una sperimentazione che dalla prossima estate metterà le donne nelle condizioni di vedersi somministrata la pillola Ru 486 in adeguati consultori familiari. Un protocollo sperimentale, della durata di diciotto mesi, consentirà di convalidare le modalità di ricorso per tale aborto chimico, che comporta nello specifico la deospedalizzazione delle pazienti.
In ogni Asl laziale verranno prescelti idonei consultori in collegamento funzionale con i presidi ospedalieri, in modo da garantire le eventuali emergenze che si connotano quali eventi straordinari per una specie di interruzione volontaria di gravidanza di fatto è pratica ambulatoriale in molti Paesi europei. La Regione Lazio, come ogni altro analogo ente territoriale, ha piena autonomia normativa al proposito come risulta evidente in altre cinque regioni ove è consentito l’aborto farmacologico in regime di day hospital, differentemente da quanto previsto nella Linee guida ministeriali statuenti invece l’obbligo del ricovero per tre giorni. Trattasi a ben vedere di un vero e proprio balzo innanzi, contro cui si sono scagliate alcune forze politiche, associazioni pro-life, nonché il Vicariato di Roma.
In sede di risposta alla deputata interrogante la ministra Lorenzin ha precisato che “La sperimentazione della somministrazione di farmaci per IVG nei consultori, di cui hanno dato notizia, nelle scorse settimane, gli organi di stampa, costituisce oggetto di una decisione esclusiva dell’amministrazione regionale, la quale, allo stato attuale, non sembra essere fondata su di alcuno studio sperimentale approvato, né su novità scientifiche sopravvenute né su pareri di comitati etici”. Calcando ulteriormente la mano la titolare del dicastero alla Salute ha successivamente precisato che “La legge 194 non sembra prevedere, quindi, che i consultori possano essere considerati fra le sedi in cui effettuare interventi di IVG”. Sorge un dubbio, ma quel “sembra” non sarebbe messo lì a caso, visto che nell’anno di promulgazione della 194, ossia il 1978, l’unica modalità per interrompere volontariamente una gravidanza era la modalità chirurgica, o la spiegazione è altra?
Con i progressi scientifici è stato consentito alle donne di potere ricorrere ad un tipo di aborto, qual è quello chimico, meno invasivo del loro corpo, tant’è che nel resto d’Europa la tendenza è al suo aumento costante rispetto a quello chirurgico.
Secondo i dati riportati nel 2010 dal prof. Carlo Flamigni per gli aborti entro le prime nove settimane quello farmacologico è scelto per il 42%, in Inghilterra e Galles, per più del 42% in Francia, il 60% in Danimarca, il 60,6% in Svezia ed il 77,8% in Scozia. In Italia, invece, sin dal suo riconoscimento normativo, avvenuto con molto venti anni di ritardo nel 2009, l’aborto farmacologico ha avuto vita dura, tant’è che costituisce solo il 15% delle interruzioni volontarie di gravidanza. Probabilmente ne è causa la scelta ministeriale del ricovero ospedaliero di 3 giorni, fatto è che il ricorso a questa pratica è molto al di sotto della media europea. (leggi anche 'Ru 486: non tutte le streghe sono state bruciate, C. Flamigni e C. Melega, ed L'Asino d'Oro)
La risposta della ministra Lorenzin non sembra quindi tenere conto di questa realtà, contribuendo alla mancata modifica del regime di somministrazione della Ru 486 per nulla rivisitato in questi anni.
Eppure un cambio di passo si palesa necessario alla luce della circostanza per la quale le donne che ricorrono all’aborto farmacologico firmano le dimissioni per rientrare in ospedale successivamente, ma soprattutto si palesa obbligato dal sempre più frequente acquisto in rete di farmaci abortivi non sicuri, i cui effetti sono ben più gravi per la salute delle donne. Come potrebbe allora leggersi l’intervento parlamentare dell’esponente governativo in merito alla prossima sperimentazione nel Lazio della somministrazione della Ru 486 in specifici consultori? Come un tentativo di riportare alla disciplina normativa della 194 ciò che nel 1978 non era in esso previsto? Come una pressione istituzionale per bloccare tale esperimento, peraltro in linea con la conferita autonomia legislativa in capo agli enti regionali? Come richiamo costretto all’osservanza delle Linee guida ministeriali per l’utilizzo della Ru 486?
Beatrice Lorenzin ha giustificato le posizioni ministeriali riguardo la necessità del ricovero ospedaliero con la salvaguardia del diritto alla salute delle donne, concordando con la deputata interrogante che debbano essere garantite “le massime condizioni di sicurezza per la salute della donna”. Sulle stesse posizioni ideali è il Vicariato di Roma, quando afferma che “i rischi sanitari le la mortalità connessa all’utilizzo della pillola abortiva sono normalmente superiori a quelli dell’aborto con procedura chirurgica”. Vengono allora alla mente le parole di un articolo dell’Avvenire del 18 dicembre 2008, esplicative della contrarietà nei confronti dell’aborto chimico e relative al timore che un giorno si possa giungere alla totale determinazione della donna in fatto di interruzione volontaria di gravidanza: “Non si può accettare che la decisione di abortire […] sia lasciata nelle mani solo della gestante, al di fuori di ogni regola e di qualsiasi ausilio che l’aiuti a riflettere su quanto sta per fare”.
Ebbene, la Regione Lazio le regole le sta preparando, nei consultori la donna non sarà lasciata sola o senza le necessarie tutele ed il Governo, per il tramite della titolare del dicastero alla Sanità, garantisca “la sperimentazione dell’aborto farmacologico in tutto il territorio nazionale, una metodica che può avvenire in completa sicurezza e garantendo la libertà di scelta alle donne, come avviene in tutto il resto dell’Europa e del mondo” (on. Marisa Nicchi). “L’obbligo di ricovero non è un fatto sanitario, è un fatto ideologico e politico, per rendere l’aborto un percorso gravoso per le donne. Come se dovessero essere punite di qualcosa. Noi non vogliamo banalizzare la scelta, ma rendere il tutto più umano. E la Ru486 è una pratica ambulatoriale, non ospedaliera” (Anna Pompili, ginecologa, tra le ideatrici della sperimentazione). E, soprattutto, come sottolineano Carlo Flamigni e Corrado Melega nel libro Ru486: Non tutte le streghe sono state bruciate, la “si smetta di considerare la popolazione femminile così sciocca, fatua e insensibile alla legge morale da scegliere di abortire solo perchè la fila ai consultori è breve”.
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