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Biografilm, pillola 3: Tunisia, Marocco, El Salvador, Libano: donne in lotta

Biografilm, pillola 3: Tunisia, Marocco, El Salvador, Libano: donne in lotta

Fantastici documentari di 4 registe mostrano come le donne si impegnino per cambiare leggi e tradizioni

Sabato, 03/07/2021 - Pillola 3: Donne in lotta per i propri diritti in Tunisia, Marocco, El Salvador, Libano (biografilmfestival.it)
She had a Dream (Ghofrane et les promesses du printemps) di Raja Amari, Francia 2020.
Chi vive nei Paesi ricchi, se fino ad oggi possiamo chiamarli così, molto spesso dà per scontato e pensa che leggi, diritti, emancipazione dei sistemi culturali e tradizionali che si sono ottenuti con tanto impegno, sacrifici, lotte e perdite umane, appartengano anche ad altre parti del mondo o siano perlomeno più diffusi, ma non è così e a dimostrarvelo i 4 documentari biografici che vi sto per raccontare. Proprio perché non è sempre facile venire a conoscenza delle problematiche che si vivono in altri Paesi, sono molto importanti i Festival come Biografilmfestival.it che si tiene dal 2005 a Bologna. L'impegno civile, politico, sociale e culturale delle quattro donne protagoniste dei documentari mette in luce come la maggioranza viva in situazioni di grave difficoltà all'interno di sistemi culturali classisti e razzisti nonché molto arretrati dal punto di vista dei diritti delle donne in tutti i settori, dalla semplice vita quotidiana e adoloscenziale, a quella lavorativa e addirittura nel loro ruolo di madri e procreatrici.
Il film biografico “She had a dream” di Raja Amari riproduce la vita di una bellissima ragazza tunisina ventenne nella Tunisi di oggi a dieci anni dalla Primavera Araba iniziata con il gesto di protesta di Mohamed Bouazizi il ragazzo che per il sequestro della sua bilancia e della sua frutta e verdura mentre vendeva al mercato, si è dato fuoco a Sidi Bouzid, un villaggio rurale della Tunisia, il 17 dicembre 2010. Ghofrane ha dei capelli ricci lunghi molto curati con ciocche bianche come una modella, uno splendido incarnato nero, ed è ripresa nel suo piccolo appartamento mentre guarda delle foto. “Non mi piacciono le foto che mi ritraggono. Le ho distrutte tutte. Ecco mio papà, mio fratello e mia madre. Non avrei mai voluto lasciare il nido. Ero così sicura e felice. Invece non ho ricordi belli della scuola avevo un'insegnante che mi faceva sedere in fondo all'aula e mi schiaffeggiava. Mia madre le chiese se lo faceva perché ero nera. Non lo fece più ma mi ignorava completamente. Un'altro mi chiamava 'tizzone bruciato'. In Tunisia, e in tutti i paesi nordafricani, soppravvive in una bella fetta di popolazione il razzismo verso chi ha la pelle nera. Eppure l'Africa è il continente, culla dell'umanità, da cui si è orininata la dispora verso tutto il pianeta e dove la popolazione è in maggioranza nera e dovrebbe essere un vanto. La pelle nera invece ancora nel secondo millennio continua a essere causa di discriminazione. Ghofrane salutando dal terrazzo i suoi vicini dice, per precisare di che tipo di razzismo si tratta e da dove viene: “Nel mio quartiere non sono mai stata discriminata, solo dall'elite, da chi è istruito.” Quindi la discriminazione è messa in atto dalle classi abbienti con la pelle più chiara. “Venivo costantemente insultata e per questo sono entrata in M'nemty, un'associazione che lotta contro la discriminazione razziale, e grazie a questo sono diventata più forte. A Gabes, una cittadina rurale, dove ci sono i miei parenti e il mio nonno che adoro, bianchi e neri prendono autobus diversi. Hanno inserito la segregazione razziale per impedire i matrimoni misti.” Tra la fine del 2010 e il 2011 i giovani che si erano riversati nelle piazze della Tunisia in migliaia per mesi, rivendicavano proprio la fine della corruzione, l'uguaglianza di opportunità e un lavoro dignitoso per tutti. Ne sono morti oltre cento e migliaia furono i feriti. Il 14 gennaio, dopo la morte del giovane che si diede fuoco, l'allora presidente lasciò la Tunisia per l'Arabia Saudita. E subito la Primavera araba accese le piazze dell'Egitto. Ghofrane aveva solo 10 anni e mentre accarezza il suo gatto rosso ci dice che il 26 dicembre 2016 ascoltò il comizio di un uomo politico le cui parole la colpirono: “Affermò che in Tunisia c'è ancora il razzismo e con la politica si può cambiare la situazione cambiando la mentalità della gente.” Era Youssef Chahed, primo ministro nel primo governo eletto democraticamente dopo la Rivoluzione dei Gelsomini, nonché leader del partito Long Live Tunisia (Tahya Tounes). La nostra protagonista è entrata a far parte di questo movimento politico come attivista senza alcun guadagno abbandonando gli studi di giurispudenza. Ghofrane di solito si muove in taxi per le lunghe distanze, non ha un auto o un motorino, e racconta un episodio di razzismo “Anche prendere il taxi non è facile per i neri. Una volta un autista dopo essere salito ha nimacciato di uccidermi e ci ha provato. L'ho denunciato alla polizia ma non ha fatto niente.” “Voglio impegnarmi affinché i tunisini neri si occupino di politica e partecipino perché non siamo rappresentati in questo paese.” Lo ripete a casa della madre mentre cena sul terrazzo sul tetto tipico delle case di Tunisi insieme ad amici e parenti. Alle elezioni dell'ottobre 2019, morto il Presidente Essebsi, Ghofrane si candiderà in Parlamento come quarta, per Long Live Tunisia. La sua scelta la porta ad abbandonare l'associazione con la quale ha iniziato il suo impegno civile perché non accetta persone che fanno parte di un partito. La Presidentessa di M'nemty, disillusa sull'onestà della politica, la mette in guardia dicendole che se ci fosse stato un partito realmente democratico l'avrebbero notato e che purtroppo in quarta posizione non sarebbe stata mai eletta anche se il suo partito avesse vinto. Ma Ghofrane ci crede e realizza una grande campagna elettorale per sé e per il partito che rappresenta lungo le bianche strade di Tunisi toccando tutti i luoghi che frequenta quotidianamente tra amici che la sostengono e altri che non la voteranno perché non credono nella politica e nel partito che rappresenta. E la nostra protagonista confessa: “Adesso dopo il fallimento delle Primavere c'è solo disillusione prima c'erano tante aspettative. Credo che bisogna ridare fiducia alla politica. Poi voglio dimostrare alla mia famiglia che sono forte anche se sono solo una ragazza e ce la posso fare.” Con le amiche si ritrova dalla parrucchiera amica dove si confrontano sulle convenzioni sociali che obbligano le ragazze a ventanni a trovare un ragazzo, a sposarsi e ad avere dei figli. Loro voteranno Ghofrane solo una non la voterà perché deve sposarsi e non va a votare. A sostenerla ci sono tutti gli amici poveri del quartiere, che tra gli stretti vicoli e le case bianche, fanno il coro ad un pezzo rap improvvisato da Zakaria, un ragazzo che entra e esce dal carcere: “Ti voterò perché hai sempre aiutato i poveri e sei amica dei criminali e li hai aiutati e consigliati. Qua siamo tutti disoccupati e passiamo tutto il giorno tra una pillola qui e uno spinello là.” E tutti insieme sulle note di Bella Ciao cantano 'Vogliamo una Tunisia senza corruzione e terrorismo. Una Tunisia per tutti.” Ghofrane il giorno delle elezioni il 6 ottobre 2019 non sarà eletta e anche il suo partito perderà. Vincerà il partito islamista Ennhada e lei dichiara: “Dopo la campagna elettorale sono rimasta a casa 3 giorni. Ero molto depressa”. Sei mesi dopo la regista la riprende a discutere all'Università Aruba: “Ho deciso di completare gli studi spero di diventare avvocato. Credo che legge e politica si completino a vicenda.” Ghofrane è determinata e piena di gioia di vivere e speranza per il suo Paese e non lascerà il suo impegno politico sociale. Ora si è unita al movimento di donne tunisine nere Anbar ed è tornata tra i suoi amici che non credono nella politica magari li convincerà a partecipare e ad agire per il cambiamento. Intanto in bocca al lupo a Ghofrane e a tutte le associazioni che stanno lottando per le leggi contro la discriminazione razziale in Tunisia, l'unico paese in cui la Primavera Araba ha comunque migliorato la situazione e reso possibile la libertà di espressione e di associazione, una nuova Costituzione ed elezioni libere. I problemi molto gravi sono quelli economici con una disoccupazione al 30% tra i giovani e al 60% tra i laureati. Nel 2016 più di cento persone si sono date fuoco come Mohamed Bouazizi.


Mothers (Oumahat) di Myriam Bakir (Marocco, Francia, 2020)
Nel Paese accanto alla Tunisia il Marocco, le donne che diventano madri senza essersi sposate e quindi sono nubili finiscono in carcere a causa della legge 490 del codice penale marocchino che le considerara delle “fuori legge” . La prima inquadratura di 'Mothers' riprende le mani di queste madri nel carcere di Agadir. Da 30 anni Mahjouba Edbouche con l'associazione Oum El Banine si occupa di queste giovani donne molto povere. Quando una di loro rimane in stato interessante e il padre non vuole sposarsi, oppure se ne va, chiedono ospitalità presso la loro struttura guidata da vari tipi di operatrici. C'è chi si occupa dell'aspetto psicologico , chi si occupa delle spese, chi dell'accoglienza e un'avvocato che cura la situazione giudiziaria. Le madri nubili saranno accolte, solo a patto che vogliano avvisare i genitori dell'accaduto e vogliano tenere il futuro nascituro. Questo è lo scoglio più duro da superare perché le ragazze mentono del loro stato alla propria famiglia, perché hanno paura dei genitori che con difficoltà accettano queste situazioni, e si sentono in pericolo. Per cui quando scoprono di aspettare un bambino fuggono e si nascondono. Per fortuna molte si rifugiano presso la struttura di Mohjouba che dice: “Dal 1980 si parla di modificare la legge, ma ancora non è stato fatto nulla. In ospedale per tutelarsi da una nascita illegittima, per la quale è prevista una pena per i medici, chiamano la polizia e la ragazza madre rischia di essere accusata di prostituzione. Questo non succede se partoriscono con il nostro coinvolgimento. Ma credo che la colpa non è solo degli uomini, i giovani non sanno cosa fare. Viene loro chiesto di raccogliere il frutto proibito, sono educati in un certo modo ma poi non possono mangiarlo. Agli uomini non viene data la possibilità di dimostrarsi migliori di quello che sono. Qui in Marocco abbiamo internet, cellulari, tutte le nuove tecnologie, però come tradizioni e cultura siamo indietro di 50 anni” Continua Mahjouba toccando l'aspetto cruciale di questo sistema sociale: “Le madri interferiscono troppo nella vita dei loro figli, nel lavoro, nello stipendio, nella vita privata. Non lasciano che i figli abbiano una loro vita e diventino indipendenti e il loro senso di responsabilità non si forma. Sono troppo presenti e pressanti e sono responsabili per il comportamento dei loro figli.” Mahjouba ha salvato dal carcere migliaia di ragazze madri e i loro genitori e tiene conferenze e dibattiti su questa questione che non risoluzione se la politica e le tradizioni non l'affronteranno. Anche le famiglie sono grate a questa associazione perché in Marocco se una figlia partorisce in casa un bimbo morto finisce in carcere tutta la famiglia. Le ragazze madri riprese dal documentario solo di schiena per non essere riconosciute avranno ognuna un proprio destino. C'è chi una volta partorito si sposerà con il vero padre, chi invece tornerà in famiglia, chi invece sceglierà di andare a vivere da sola con il proprio bambino e trovare un lavoro.

Fly So Far (Nuestra Libertad) di Celine Escher, Svezia, El Salvador, 2021
che fa parte della sezione Contemporary Lives, come gli altri documentari, porta in primo piano la legge più restrittiva al mondo sull'aborto, che vige in El Salvador, dalla viva voce delle protagoniste, che hanno abortito per problemi insorti durante la gravidanza, e sono state condannate a scontare 30 anni di carcere. Teodora Del Carmen Vasquez ha 34 anni ed é in carcere da 10 anni e sei mesi. Primo piano a mezzo busto su di lei e durante il suo racconto partono le immagini animate sull'accaduto mentre racconta: “Il 13 luglio 2007 ero incinta di 9 mesi e lavoravo in centro a San Salvador, la capitale. Quando non mi sono sentita bene e ho telefonato più volte per ricevere aiuto perché non potevo muovermi. La polizia disse che sarebbe arrivata ma non è mai venuta almeno fino a quando sono svenuta. La mia bimba è nata lì. Al risveglio mi hanno chiesto - ma perché l'hai uccisa? - Non ho ucciso nessuno. - Invece si hai ucciso tua figlia e devi pagare -.” Da quel momento Teodora entrerà nel carcere femminile con altre 3000 donne e 6 bagni in tutto, con un cibo orribile e obbligata a dormire sul pavimento per 7 mesi.
Al primo processo dopo circa un anno l'avvocato, che prese 700 dollari dai genitori che vivono nella jungla salvadoregna, non si presenta, perché voleva anche la casa, la terra, tutto ma lì viveva il suo primo figlio con la madre e il padre. “A venti anni ho avuto Angél Gabriel e quello che desidero di più è stare con lui, ma ho perso il meglio della sua infanzia. Lo amo più di tutto. Come amavo la mia bambina il mio sogno era avere due figli.” Teodora in carcere non voleva parlare con nessuno fino a che conosce altre donne nella sua stessa situazione e diventano amiche per la pelle. Glenda Cruz ha perso la figlia al quarto mese dopo essere picchiata dal marito che testimonierà contro di lei. Carolina Diaz: “Sono caduta ma ancora non so cosa sia successo a mia figlia”. Alba Rodriguéz: “Sono rimasta incinta dopo uno stupro da parte di tre uomini tra cui mio fratello, ma ho tenuto il bambino solo che ho abortito per il dispiacere alla morte di mia madre. E' venuta la polizia durante il funerale del mio bambino, mentre lo portavamo in chiesa lo hanno tolto dalla cassa e lo hanno buttato con un telo sopra il pick up e ci hanno portati via. Ma io ho altre due figlie che stanno crescendo senza la mamma e senza la nonna e soffrono tanto.” Teodora dichiara il suo coraggio e la sua determinazione: “Quando mi sono resa conto che eravamo in tante mi sono fatta coraggio e ho pensato ma le donne non sono di proprietà di El Salvador e delle sue leggi, con le quali vogliono dominarci. Le donne non devono andare in prigione per problemi nati durante la gravidanza. Bisogna fare qualcosa per risolvere la situazione che stiamo vivendo, così abbiamo deciso di unirci per difenderci. Nel 2012 abbiamo incontrato per la prima volta i legali del Citizen Group, un gruppo di avvocati impegnati e ci hanno chiamato le 17 donne. In questa prigione sono stati identificati 129 casi come il nostro.” Da quel momento iniziano le campagne di mobilitazione per cambiare il codice penale e depenalizzare l'aborto da parte del partito Fronte di Liberazione Nazionale, ma partono anche le contromanifestazioni per difendere la vita. L'Arcivescovo di San Salvador e il deputato fondamentalista del partito Arena, Ricarco Velasquez Parker, sostengono che l'aborto in qualsiasi modo è avvenuto è contro natura e contro l'istinto materno e dichiarano che nessuna donna, che ha avuto un aborto spontaneo, è stata mai perseguitata.” Il deputato mente dato che è risaputo che le donne benestanti in queste situazioni vanno in cliniche private od all'estero mentre le donne povere finiscono in carcere con prove completamente false. “Sappiamo i nomi dei pubblici ministeri che non dicono la verità. I giudici non hanno nemmeno letto i risultati delle autopsie. Per Teodora hanno scritto soffocamento perinatale, che è una causa di morte naturale ed è in linea con l'urto che Teodora aveva ricevuto su un autobus la settimana prima. Ma nella sentenza poi hanno scritto annegamento, e c'erano le foto della bimba in una cassetta dello sciacquone anche se si vede che non c'è acqua, e non l'ha messa Teodora che aveva chiamato 5 volte la polizia. Non ha senso e non ha basi scientifiche.”: è quello che dichiarano gli avvocati che faranno riaprire il processo. Una dottoressa dell'ospedale conferma: “Se aiutiamo o istighiamo un aborto prendiamo dai 2 ai 5 anni. Ogni aborto in ospedale quindi viene riferito alla polizia. Si tratta di misoginia, stigma, criminalizzazione, persecuzione nei confronti delle donne. Una donna incinta perde ogni diritto. Diventa un'incubatrice. Tutti i suoi diritti vengono violati in nome del feto.”
Il sostegno fuori dal carcere per le 17 donne si diffonde. La 'Radio de Todas'
invita le donne a sostenere Teodora, davanti al tribunale di Isidro Menédez, il giorno della nuova udienza. Tantissimi sono i giornalisti e sono arrivati anche il figlio e i genitori di Teodora che è radiosa e piena di speranza. Ma l'udienza sarà sospesa e sarà confermata la sentenza nonostante l'avvocato dichiari: “Senza prove come fa l'accusa a dire che ha ucciso la figlia.” Teodora sarà picchiata e riportata in carcere. Ma da quel momento si diffonde il grido dalle strade “Lotteremo contro questo sistema capitalistico e patriarcale.” L'eco di quelle proteste di quelle ingiustizie perpetrate ai danni di donne innocenti fa il giro del mondo arriva in tutti i telegiornali finché un giorno il giudice, una donna, porta un foglio in carcere a Teodora e la invita a leggere perché le è stata ridotta la pena ed è libera, ma Teodora non lo legge perché non la crede. Teodora sarà liberata quel giorno e riabbraccerà il figlio dopo 10 anni e farà ritorno nel suo villaggio di origine nella giungla, dove vivono tutti i fratelli e le sorelle. Da lì oggi parte per raggiungere ogni angolo di El Salvador per raccontare la sua storia e fare in modo che cambi la legge sull'aborto e che le altre donne, ancora ingiustamente, siano liberate.
Libertà per le 17 è il motto della regista e aggiungo libertà e giustizia per tutte le donne salvagoregne.

“Room without a view” di Roser Corella, Germania, Austria 2021
Questo documentario ci offre uno sguardo incredibile e impietoso su come sono trattale le colf straniere in Libano. La società libanese è essenzialmente basata sull'apparenza e sull'immagine. Molte donne libanesi della classe media lavorano e avere figli dopo il matrimonio è la regola. Così sono nate delle agenzie come “Ok Madame”, che procurano domestiche provenienti da altri Paesi con un tariffario molto vario. Sembra che in Libano avere una colf sia diventato uno status symbol e chi può ne assume una. Di contro parte nei paesi con alti tassi di disoccupazione, soprattutto per il sesso femminile, sono nate agenzie, che reclutano ragazze, le insegnano il libanese e le promettono un contratto di lavoro in Libano. In Bangladesh alcuni immagini del documentario mostrano come centinaia di ragazzine sedute per terra in grandi saloni imparano a voce alta il libanese e usino gli elettrodomestici per prepararsi a fare le colf in Libano. Una delle protagoniste di questo film che fa raddrizzare la pelle, per la durezza delle immagini, è proprio una giovane bengalese.
Lo schermo è completamente nero, si sente solo la voce di colui che cerca una domestica e fa alcune domande all'agenzia informandosi sullo stipendio. “Le Filippine costano 5000 dollari, quelle provenienti dal Kenya 2600 dollari mentre quelle dall'Etiopia 200 dollari.” C'è quindi una vera e propria classificazione umana monetizzata secondo la provenienza. Altra immagine all'aeroporto che riprende l'arrivo di una ragazza che ha firmato il contratto con l'agenzia. “Appena arrivata in Libano mi hanno confiscato il passaporto. Non capivo cosa stesse succedendo pensavo di essere nei guai. Sono istruita e mi hanno detto di andare in una casa a pulire e a preparare i figli per la scuola. La padrona mi disse: 'Hai firmato un contratto ora mi appartieni, sei di mia proprietà. Non hai diritto di parlare o di lamentarti.' Ero scioccata! Ho pensato sono stata venduta!” In Libano, secondo l'articolo 7 della legge sul lavoro, ai domestici non sono applicate le normative sul lavoro ed è il sistema della Kafala a dettare le sue leggi. Le domestiche in Libano lavorano dalle 12 alle 18 ore al giorno. Spesso tutta la notte, se ci sono dei bambini piccoli, sette giorni su sette, non hanno una vita propria perché non possono uscire. I padroni le chiudono a chiave ogni volta che esconono. I racconti delle varie donne sono racappriccianti. Chi ha perso una mano per le botte ricevute, chi è stata spinta giù dal balcone, chi è stata accoltellata al viso e al collo. Alcune vivono in delle camerette piccolissime e i mariti libanesi ne abusano quando le mogli escono. Una voce di una ragazza libanese fuori campo confessa come suo padre abusasse sempre della servitù ed è risaputo che anche le mogli pur sapendo non si oppongono. Queste donne sono costrette a vivere un inferno e molte non ce la fanno, e scelgono di suicidarsi, proprio da quei balconi di quegli appartamenti, in quei nuovi condomini, che la regista ci mostra continuamente per darci un'idea della prigionia e dell'unica visione, che le colf straniere hanno per mesi ed anni. Molte, firmando quel contratto, hanno lasciato i loro figli per uno stipendio migliore e non li vedono da anni e non possono nemmeno chiamarli o telefonare alle loro famiglie. Sono donne completamente schiavizzate. Molte di loro piangono disperate dicendo: “Aiutateci a tornare a casa”.
Per fortuna c'è Radio Beirut Sud, da dove le speaker etiopi, comunicano la necessità per le colf di unirsi, per superare la loro condizione e riottenere i loro documenti.
Poi l'immagine va in una chiesa cristiana ortodossa, piena di donne sempre etiopi, che pregano per una di loro che ha perso la vita in una piscina mentre era a casa dell'agente dopo che il datore di lavoro si era lamentato di lei.
Ogni giorno 600 donne etiopi arrivano in Libano. Ogni settimana in Libano muoiono 2 domestiche. Si buttano dalla finestra o dal terrazzo e nessuno va in carcere. “Noi avvocati non sentiamo processi su abusi perché il sistema della Kafala permette a chi li compie di evitare il processo.” Il sistema della Kafala permette un traffico di essere umani di genere femminile in Libano. Ed è sotto gli occhi di tutti. Tutti sanno.
“Il Primo Maggio sono scappata senza stipendio, senza documenti, sono andata in strada e ho incontrato tante lavoratrici come me e ho manifestato.” La regista inquadra una manifestazione per le strade di Beirut. Tante le donne di tante nazionalità differenti con striscioni con scritto “Join us on international domestic workers day off” “Abolish the kafala system”. Questo documentario dovrebbe essere distribuito e circolare in tutti quei paesi dove nascono agenzie che allettano donne e ragazzine ad andare in Libano perché si guadagna. Credo che il Libano, sempre politicamente molto instabile, vada inserito, anche per il non rispetto delle norme internazionali sul lavoro nella lista dei paesi da boicottare, finché non cambia la legislazione e soprattutto il sistema culturale nei confronti delle domestiche.

Manuela Foschi (freelance)

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