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Pietà per Eluana e una legge per tutti noi

Pietà per Eluana e una legge per tutti noi

Parliamo di bioetica - Perché, alla fine dell’esistenza, l’artificiale è buono e voluto da Dio mentre, al suo inizio assume le sembianze del diabolico, della sfida alla divinità?

Battaglia Luisella Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2009

La vicenda di Eluana Englaro, la donna di trentasette anni in stato vegetativo permanente dal lontano 1992, è ancora al centro di prese di posizione clamorose e di un dibattito acceso, dopo la sentenza della Corte di Cassazione favorevole alla possibilità di sospensione delle cure. La richiesta, com’è noto, è stata avanzata sia dal padre, che ne è tutore, sia dal curatore speciale nominato dal Tribunale. Interprete della volontà della figlia – “Eluana non avrebbe mai voluto vivere così” -Beppino Englaro ha ingaggiato in questi anni una battaglia di grande coraggio in difesa del diritto a una morte dignitosa. Le reazioni, ancora una volta, non si sono fatte attendere, a cominciare da Eugenia Roccella la quale ha dichiarato che “sarebbe la prima volta in Italia in cui i magistrati decidono della vita e della morte di una persona”. In effetti, sarebbe auspicabile che nel nostro paese non fossero i magistrati a decidere della vita e della morte ma che ciascuno di noi potesse decidere per sé. Il testamento biologico è appunto lo strumento che dovrebbe consentire a ognuno, se lo desidera, di scegliere il suo destino. Allora perché osteggiarlo e considerarlo come la via aperta all’eutanasia? Perché continuare a frapporre ostacoli a una legge che, senza obbligare alcuno, apre per chi vuole uno spazio di libertà?

Il caso di Eluana, in ogni caso, ha rotto la congiura del silenzio sulla morte, costringendoci a parlare di che cosa è - e sarà sempre più - lo stato terminale della vita, il tratto estremo del nostro passaggio umano in società tecnologiche ad alta medicalizzazione. La tecnica sta ormai cancellando la morte naturale nei termini in cui l’aveva finora vissuta la nostra specie. Viviamo un mutamento epocale che richiede un esercizio straordinario di ragione e di realismo proprio per un carico di decisioni e di responsabilità impensabili nel mondo di ieri, governato dalla natura e dalle sue leggi. La tecnologia, che lo vogliamo o no, accompagna ormai il morire ed è veramente paradossale constatare come l’artificio, difeso tenacemente dalla Chiesa di fronte alla morte per mantenere la vita a ogni costo, venga poi respinto quando riguarda la nascita con l’intento di rendere possibile la vita. Qual è il criterio o il principio su cui può fondarsi tale differenziazione? Perché, alla fine dell’esistenza, l’artificiale è buono e voluto da Dio mentre, al suo inizio assume le sembianze del diabolico, della sfida alla divinità?

Sono certo comprensibili le cautele procedurali relative all’accompagnamento al morire, proprio per evitare che prendano il sopravvento interessi diversi da quelli del morente (es. l’istituzione ospedaliera che vuole ridurre i costi di degenza, famiglie o congiunti che vogliono liberarsi da oneri divenuti troppo gravosi etc). La disciplina giuridica deve rimanere sempre saldamente ancorata alla volontà espressa dalla persona e proprio per questo l’impegno a favore del testamento biologico dovrebbe essere sostenuto da credenti e non credenti. Un impegno comune volto a elaborare regole per conciliare il diritto individuale a disporre della propria vita - peraltro costituzionalmente garantito - con l’obbligo istituzionale a favorire tutte le cure necessarie alla persona malata, obbligo che non si deve in alcun modo spingere alla ‘tortura inutile’ dell’accanimento terapeutico.

Daniel Callahan, uno dei più autorevoli studiosi cattolici di bioetica, fondatore del prestigioso Hastings Center di New York, intervenendo di recente a un convegno organizzato a Milano dalla Fondazione Floriani per i suoi trent’anni di attività a sostegno dei malati terminali, si è augurato che venga risparmiato ad Eluana il tormento di Terry Schiavo, sottolineando la necessità di tener conto delle dichiarazioni di volontà espresse in precedenza, anche se solo verbalmente, dalla persona stessa.

Eluana, in effetti, è divenuta, suo malgrado, simbolo di una lotta condotta senza esclusione di colpi, spesso combattuta con un’asprezza inaudita e che ha visto schierato l’uno contro l’altro i due improbabili partiti della vita e della morte. L’impressione è che, ancora una volta, si voglia imboccare la via di uno scontro totale: quello tra i fautori della sacralità della vita, per cui essa è un dono di Dio e come tale non disponibile, e i fautori della qualità della vita, per cui essa è un bene a disposizione dell’uomo, che può appunto giudicarne la ‘qualità’ e decidere in merito. Impostato in questi termini, lo scontro è privo di soluzioni.

Sembra, comunque, assolutamente improprio, in un caso così doloroso e umanamente straziante, far riaffiorare, secondo la lettura del quotidiano vaticano, i fantasmi di una visione che giudica gli esseri umani in termini di utilità e ne decide la “condanna a morte”.

Credo potrebbe essere utile - a proposito delle decisioni relative al ‘che fare’ in situazioni acclarate di stato vegetativo permanente - richiamare alla memoria un caso per molti aspetti significativo come quello di Eluana: mi riferisco a Beniamino Andreatta. I suoi familiari, in una situazione analoga, hanno interpretato la volontà presunta del loro congiunto prendendo, al suo posto, la decisione di mantenerlo in quello stato, ritenendo, sulla base delle opinioni manifestate precedentemente, che tale sarebbe stata la sua volontà. Il padre di Eluana, a sua volta, si è reso interprete della volontà, anch’essa presunta, della figlia, sulla base della conoscenza diretta dei suoi più intimi desideri, oltre che delle concordi testimonianze degli amici. Entrambi hanno cercato di attenersi, il più possibile scrupolosamente, all’esigenza di rispettare la volontà - si badi, nei due casi non espressa - dei loro congiunti, facendosi loro ‘interpreti’, nell’intento di realizzare il ‘loro’ bene.

E’ troppo chiedere un identico rispetto per due decisioni antitetiche ma dettate dallo stesso amore e animate dalla stessa tenace istanza di rispetto dell’autonomia della persona?

Perché nel nostro paese non si consente la libertà di poter decidere, nel riconoscimento della legittima diversità delle due visioni del vivere e del morire, entrambe – occorre sottolineare – eticamente fondate? Come sarebbe stato improprio accusare, allora, i familiari di Andreatta di ‘accanimento terapeutico’ (la decisione provocò un ampio dibattito, condotto sempre in termini assai rispettosi, anche da parte dei ‘dissenzienti’) così lo sarebbe oggi accusare il padre di Eluana di ‘eutanasia’. Il che invece, purtroppo, sta avvenendo…

Cosa rispondere infine a chi teme si tratti di un pericoloso precedente, che potrebbe “aprir la strada a pratiche eutanasiche”, secondo l’ormai abusato argomento del ‘piano inclinato’? Come sarebbe del tutto ingiusto imporre a tutti la soluzione di Andreatta, così lo sarebbe generalizzare quella di Eluana. Nessuno, tanto meno i familiari di Andreatta, ha inteso indicare una strada valida e egualmente percorribile per tutti né tanto meno prescrivere una linea di condotta universale; allo stesso modo, il padre di Eluana non intende proporre – tanto meno imporre – ad altri la risposta cui è dolorosamente pervenuto: non pretende certo indicare ad altri cosa è bene fare in casi tanto tragici. Gli uni e gli altri si sono limitati a cercare la soluzione più ‘giusta’ per la persona amata: hanno cercato, nei due casi, di dare risposte che corrispondessero il più possibile alle intenzioni, alle volontà, alle credenze dei loro congiunti, non più in grado di farlo. Il che è proprio quello che ci invita a fare la Convenzione di Oviedo (1997) che all’articolo 9 recita: “I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”.



(8 gennaio 2009)

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