Dalla viva voce - Il dire e il fare delle donne nella lotta alle mafie
Rosa Frammartino Lunedi, 22/03/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2010
Da moglie di … a testimone di giustizia. Quando avviene il cambiamento?
“Sì; è un grosso cambiamento, ma non in me. Dentro di me non c’è stato un vero cambiamento perché io non ho mai condiviso le regole di vita delinquenziali di mio marito. Molti non lo sanno, ma io sono stata costretta a sposare Nicola Atria. Negli anni vissuti insieme ho sempre cercato di contrastarlo. Se trovavo droga, la buttavo e spesso, per questo, venivo picchiata. Sono stata presa a calci nella pancia ed ho rischiato di perdere la bambina, quando ero incinta di otto mesi. Ero costretta ad imparare a sparare, ero costretta a conservare in casa le armi. Questa cosa non l’ho mai detta neanche ai miei genitori; è una cosa che mi sono sempre portata dentro. Anche se accanto a me c’era l’affetto della mia famiglia, mi sembrava così grave che non ho mai avuto la forza di parlarne. Sono diventata testimone di giustizia senza accorgermene. Dopo la morte di mio marito, avvenuta il 24 giugno del ’91, venivo sorvegliata e seguita a vista dai delinquenti. Chi aveva fatto uccidere Nicola Atria, sapeva che io ero a conoscenza di molte cose, ma non sapeva che io conservavo i miei diari, dove scrivevo tutto. Appunti che si sono rivelati preziosi quando ho incominciato a raccontare. La mia terribile esperienza di moglie di mafioso riempì i verbali che hanno poi consentito di fare gli arresti. Mi confidai con un maresciallo del paesino in cui allora abitavo e con un giovane procuratore donna, la dr.ssa Morena Plazzi, che mi trovai vicina al momento dell’autopsia al corpo di mio marito a Sciacca. La ricordo con affetto e gratitudine perché seppe avvicinarsi a me con grande sensibilità, come un’amica. Allo sguardo vigile di mia suocera non sfuggì il gesto con cui la dr.ssa Plazzi mi diede il bigliettino con i dati ai quali potevo fare riferimento. Mi fu subito strappato dalle mani. Ma quell’incontro fu ugualmente importante perché quelle persone mi consentirono di conoscere Paolo Borsellino”.
Conosci così Paolo Borsellino?
Dopo Sciacca incontrai Paolo Borsellino ed il suo gruppo a Terrasini. Non fu una vera deposizione, ma hanno avuto la possibilità di riscontrare che stavo dicendo la verità. Da quel momento ho avuto solo quattro giorni di tempo per raccogliere le mie cose e, con la mia bambina di tre anni, partire per Roma dove avverrà la mia piena deposizione.
Grazie a quella testimonianza ci furono gli arresti. Poco dopo, anche mia cognata Rita mi seguì a Roma e cominciò quello che io e Rita chiamavamo “le vacanze romane” perché per la prima volta potevamo gioire di semplici cose come andare a mangiare una pizza o vedere un film.
Ricordo che, al mio arrivo a Roma, mi vennero dati dei soldi ed io li rifiutai; accettai solo quando Paolo Borsellino mi disse che dovevo prenderli perché mi spettavano; erano un contributo necessario visto che non avevo la possibilità di lavorare. Fu in quel momento che “zio Paolo” come avevo imparato a chiamare il giudice Borsellino, mi disse che ero diventata “testimone di giustizia”… una cosa a cui non avevo ancora pensato. Fino a quel momento avevo creduto che una volta resa la mia testimonianza, me ne sarei potuta tornare a casa. Ma così non fu.
Quando c’è l’incontro con l’impegno sociale?
E’ il tempo delle stragi a Palermo. Prima Giovanni Falcone, poi Paolo Borsellino. E, poco dopo, il suicidio di Rita Atria. E’ il tempo dello sgomento, ma anche della ribellione e dell’indignazione. E’ il tempo dei lenzuoli bianchi a finestre e balconi di Palermo. E’ in questo periodo che Nadia Furnari ed un gruppo di giovani danno vita ad un’associazione a cui non danno il nome di un magistrato o di una vittima “importante”, ma il nome della giovane Rita Atria, figlia di mafiosi che aveva imboccato un cammino di liberazione e che, per solitudine, aveva scelto la morte dopo la terribile strage di via D’Amelio. Una delle cose che ancora non so dimenticare è il dolore di non aver potuto essere presente al funerale di Rita. Ma la nascita di un’associazione con il suo nome, fu per me un conforto. Per farmelo sapere, Nadia mi scrisse una lettera indirizzandola ai carabinieri del paese in cui vivevano i miei genitori e, grazie a mia madre, dopo molto tempo, la ricevetti, durante la presentazione pubblica di una fiction sulla storia di Rita.
Era tardi; quasi le 23, quando il telefono squillò in casa Furnari. Chiesi di parlare con la signora Nadia e lei chiamò la sua mamma. Precisai che volevo parlare con Nadia. Trascorsero pochi minuti; il tempo sembrava essersi fermato. Un silenzio che quasi toglieva il respiro; poi, a fatica Nadia riacquistò la parola, ed io con lei. Sentii subito che di lei potevo fidarmi. Cominciò così il nostro dialogo, la nostra amicizia. Cominciò così il mio impegno nel sociale. A quella telefonata, sono seguiti giorni di ansia e di rabbia contro un sistema che non riusciva a darmi i piccoli margini di libertà per una vita in qualche senso normale. Esasperata dalle tante “non risposte”, un giorno chiamai Nadia e le comunicai che avevo deciso di andare in Sicilia. Da sola. Senza la scorta. Luogo del nostro incontro: l’aeroporto di Catania.
Sapevamo tutto l’una dell’altra, ma non ci conoscevamo fisicamente. Ugualmente l’istinto ci ha guidate e, senza dire una parola, ci siamo ritrovate abbracciate. Solo dopo alcuni minuti ci sono state le parole: ‘Io sono Piera. Io sono Nadia’. Ma era solo una conferma.
Nel 1996, finalmente con i nuovi documenti per la mia identità, e accanto all’associazione cominciai ad incontrare i giovani nelle scuole. A qualcuno di questi incontri, sempre accanto a me in quegli anni, c’era anche mia figlia Vita Maria. Anche lei ha condiviso la difficile vita della mamma “testimone di giustizia”. Un peso che ancora grava sulla qualità della sua vita.
Quando diventi presidente dell’associazione Rita Atria?
Sono diventata presidente nel 2008 su proposta di Nadia e del gruppo delle socie. Ho vissuto come un dono questa offerta, ma allo stesso tempo ero spaventata. Temevo di non essere in grado di corrispondere alle aspettative di chi me lo proponeva. Dopo qualche notte insonne, decisi di sì. Sentii che alcune parti di me si ricongiungevano, si armonizzavano in un progetto di vita in cui Piera “testimone di Giustizia” era la stessa persona - presidente di un’associazione in un ruolo che dava completezza alla sua passione civile. Accadde anche un’altra cosa bella: diventò socia anche mia figlia Vita Maria Atria, nipote di Rita Atria.
Vita Maria è impegnata nell’associazione?
Vita Maria condivide con me e Nadia la gioia di far parte di un’associazione dedicata alla zia Rita, ma sa di dover prima dedicare tutta la sua attenzione agli studi che rappresentano un punto centrale nel suo progetto di vita. Nel corso degli anni ci sono stati periodi in cui ha percepito l’associazione come una “cosa” che le toglieva importanti “pezzi” della mia attenzione. Con lei sono stata severa, ma la mia preoccupazione è stata, ed è tuttora, quella di preparala al fatto che la vita è difficile, a volte crudele. Come lo è stata la mia. Da lei ho preteso un impegno nello studio al quale neanche io mi sono sottratta. Non mi sono limitata alle parole, ma ho cercato di indicarle la strada con l’esempio; nonostante la vita da “testimone di giustizia”, ho ripreso gli studi e mi sono diplomata.
Chi è oggi Piera Aiello?
Sono trascorsi 19 anni, ma io mi sento sempre più Piera Aiello. Mi sono rifatta una vita; ho un marito, una famiglia, un lavoro. Per anni ho vissuto in un mondo fatto di bugie; sì, perché la mafia è un mondo basato sull’inganno e sulla bugia. Ho continuato a vivere nella bugia perché costretta ad una doppia identità e ad una vita in località segreta. Oggi anche la più piccola bugia mi pesa. Vorrei poter vivere in libertà e piena sincerità le mie amicizie. Non mi piace essere considerata “personaggio”, ma voglio essere considerata solo come Piera, con le mie qualità e le mie fragilità.
Il tuo contributo di testimonianza l’hai dato tanti anni fa. Cosa ti spinge oggi a raccontare la tua esperienza ai ragazzi nelle scuole?
Affronto con gioia le difficoltà di spostamento perché non voglio che la mia testimonianza abbia finito il suo scopo nei tribunali; sento che è importante portarla fuori, in altri luoghi dove può servire a muovere le coscienze e contribuire a diffondere la cultura della legalità e del rispetto per l’altro e per la propria comunità. Gli studi e l’arricchimento culturale possono fare molto per allontanare i giovani da una criminalità che, ancora oggi, fa leva proprio sull’ignoranza per convincerli ad “entrare al suo servizio”. Purtroppo questo accade ancora, ma i giovani si accorgono presto che nessun beneficio può venire da una scelta di illegalità e di vita violenta. Anche per questo sento che può essere utile il mio contributo di testimonianza per ribadire che “una vita senza la mafia” è possibile. E’ così che continuo il mio percorso di liberazione, cominciato tanti anni fa con la testimonianza resa a “zio Paolo”, e proseguita con il determinante aiuto di Nadia e dell’associazione Rita Atria.
Foto per gentile concessione dell’Associazione Antimafie “Rita Atria”
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