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Piccoli, infaticabili lavoratori

Piccoli, infaticabili lavoratori

Quo vadis, Cina? - Il più grande popolo di consumatori del pianeta ha puntato su industrializzazione, ricerca e innovazione, ma alla rapida crescita economica corrisponde un divario sempre più ampio tra disagi e nuove ricchezze. Il prezzo più alto lo p

Cristina Carpinelli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2007

E’ difficile determinare per un paese grande come la Cina il vettore di cambiamento, che dovrebbe mostrare un punto di partenza e uno di arrivo. Per i dirigenti cinesi le trasformazioni in atto nel paese sono da ricercare nel passaggio, avviato alla fine degli anni ’70, da un’economia socialista di piano ad una socialista di mercato. Molti studiosi occidentali ritengono invece che il cambiamento sistemico cui si assiste in Cina sia in direzione di un capitalismo vincente sul piano del profitto ma brutale su altri piani. Basti solo pensare al dato sconcertante dello sfruttamento del lavoro minorile. L’aumento spettacolare del ritmo di crescita è reso possibile grazie al contributo determinante del lavoro dei minori. L’Unicef ha calcolato che più del 30% dei redditi familiari cinesi sono assicurati dal lavoro infantile.
La Cina di Deng Xioping sta realizzando quel che Mao Tze Tung auspicava come “il grande balzo in avanti”. E questo balzo sta avvenendo in forme e a velocità sbalorditive che nemmeno Mao avrebbe potuto prevedere. Sul piano dei tassi di sviluppo i risultati sono straordinari. Siamo di fronte al più grande popolo di consumatori del pianeta, che lavora duro per esportare manufatti e per far crescere il mercato interno, puntando su industrializzazione, ricerca, innovazione e confidando su una forza lavoro eccedente e giovane. Come ammette l’economista liberale Joseph E. Stiglitz, la Cina ha dimostrato che la trasformazione dell’economia non si accompagna necessariamente a una forte depressione. La trasformazione di questo paese ha infatti prodotto la più vasta riduzione della povertà nella storia (da 358 milioni di poveri nel 1990 a 208 milioni nel 1997 - stima dell’Asian Development Bank), contrariamente a quanto è successo negli anni novanta nella Russia in transizione, che ha generato quello che forse è stato il maggiore incremento della povertà della storia in un breve lasso di tempo.
Oggi il ritmo di crescita della Cina è ampiamente superiore al tasso mondiale, ponendo questo paese su una traiettoria di convergenza economica verso i livelli di reddito dei paesi industrializzati. Per quanto riguarda alcuni indicatori sociali, come la salute e l’istruzione, esso si situa nella categoria dei paesi a medio reddito. La speranza di vita alla nascita (71 anni), il tasso di alfabetismo della popolazione adulta (84%), il tasso di mortalità infantile (30 per mille), lo collocano sullo stesso piano della media dei paesi dell’Asia orientale, e mostrano un livello di sviluppo umano superiore a quello dell’India.
Ci sono, comunque, dei limiti. C’è chi sostiene che la Cina stia procedendo a ritmi troppo serrati e che operi di conseguenza nelle tipiche contraddizioni che incontra il socialismo di mercato. Tuttavia questa è solo una fase di transito della “rivoluzione cinese”, che dovrebbe presto chiudersi per lasciare il posto alla costruzione di un’armoniosa società socialista. “People first!” è la parola d’ordine del Segretario del Pcc Hu Jntao. In sostanza il problema è quello di rallentare il treno della crescita (la produttività sovrasta la produzione!) che correndo troppo ha fatto allargare la forbice sociale, il divario tra disagio diffuso e nuove ricchezze. Questo è il punto di vista di coloro che pensano che la Cina odierna abbia imboccato la strada della Russia sovietica degli anni della Nep quando, nel dare avvio all’economia mista, s’imbatté in non pochi problemi determinati dalla liberalizzazione economica.
Ma c’è anche chi identifica nella Cina un “nuovo ciclope capitalista” alla conquista sfrenata di mercati globali nella lotta imperialista fra giganti, e alle prese al suo interno con conflitti di natura antagonistica propri del capitalismo, seppure di variante cinese: gravi violazioni su ambiente, orari di lavoro e sicurezza, standard sanitari bassissimi, assenza di welfare, formazione di un proletariato urbano e contadino con redditi lillipuziani rispetto a quelli della nuova borghesia emergente ecc.
In attesa di capire quale orientamento assumerà la Cina (se socialista o capitalista), è possibile comunque fare alcune considerazioni sulla ricaduta sociale del grande balzo in avanti. Uno di questi riguarda certamente la condizione dei minori. E sotto questo aspetto l’antico Regno di Mezzo riserva per il momento delle amare sorprese. Un rapporto del cartello sindacale “PlayFair 2008”, pubblicato il 10 giugno di quest’anno, dal titolo “Nessuna medaglia alle Olimpiadi per i diritti dei lavoratori”, ha denunciato l’impiego disumano di bambini cinesi nella produzione di oggetti con il marchio ufficiale dei giochi per le Olimpiadi del 2008: costretti a lavorare dalle 7,30 alle 22,30 con ritmi di lavoro massacranti e con una paga giornaliera di 32 yuan (circa 3,2 euro). Un giro d’affari di 70 milioni di dollari che ha visto coinvolte quattro aziende del sud del paese, regolarmente autorizzate a produrre gadget e che hanno assoldato minori, sfruttandoli e facendoli lavorare in condizioni nocive: “Nessuno qui indossa guanti protettivi - affermava un piccolo operaio che usava vernici tossiche e additivi chimici pericolosi - perché coi guanti si lavora meno in fretta e il caporeparto ti punisce. Le mani mi fanno molto male, quando le lavo, piango di dolore”. A seguito della denuncia, il Comitato olimpico locale ha annunciato la revoca delle licenze alle ditte incriminate.
Questa circostanza particolare non costituisce tuttavia un’eccezione, ma conferma la regola della dilagante condizione di ipersfruttamento a danno di minori in Cina. Lo dimostrano migliaia di altri casi venuti alla luce. Non da ultimo quello delle fabbriche di mattoni nello Shanxi e nell’Henan, dove erano occupati bambini adescati con promesse di lavoro e ridotti in schiavitù, sottonutriti e ustionati dai mattoni bollenti. Pechino ha immediatamente ordinato misure di eccezionale severità, compreso l’arresto (la legge penale cinese prevede una pena minima di 3 anni per sequestro di persona o per lesioni gravi), contro polizia, ispettori del lavoro e autorità locali che non sono intervenuti, e sospetta gravi collusioni.
La Cina, insieme con altri Stati dell’Asia meridionale, ha registrato in questi ultimi anni una delle più basse variazioni percentuali per quanto riguarda la diminuzione del suo tasso di lavoro minorile (-32%). Un record negativo se si mette a confronto questa variazione con quelle di altre aree geopolitiche e, in particolare, con quella dell’Asia orientale (-70%). L’ILO calcola che i minorenni costretti a lavorare siano l’11,6%, cioè molte decine di milioni. Questo è uno dei motivi per cui giornali e siti internet occidentali “bacchettano” la Cina. Tuttavia, varrebbe la pena che i mass media rilevassero pure il fatto che parecchie multinazionali straniere, approfittando delle larghe prospettive offerte dagli investimenti diretti stranieri, si sono insediate in Cina attratte dai bassi costi del lavoro e dalla totale assenza di vincoli per quanto riguarda il rispetto della “clausola sociale”. E’ il caso della Wal-Mart, la grande catena di ipermercati americani, più volte sotto inchiesta per l’impiego di minori in lavori pericolosi. Oggi il 57% delle merci che la Cina esporta è prodotto da multinazionali che non sono cinesi! Lo dichiara Franco Bernabè, già manager dell’Eni e ora nei Consigli di amministrazione di molte partecipate cinesi. Una dichiarazione, quella di Bernabè, che solleva legittimamente il problema dell’utilizzo di forza lavoro minorile, magari disponibile a lavorare 12 ore al giorno per 20 centesimi di euro l’ora (la metà della paga minima cinese), anche in questi impianti produttivi delocalizzati, dove le lobby internazionali impediscono al sindacato di entrarvi (come rivela l’autorevole “New York Times”). Sono escluse dal calcolo del manager italiano le multinazionali che hanno subappaltato la produzione in Cina. La fabbrica cinese He Yi Dingguan, che costruisce giocattoli per conto della Walt Disney, è stata al centro di un grosso scandalo (i “giocattoli della miseria”) per le indecenti condizioni di lavoro cui sottoponeva il suo personale, compreso quello minorenne. Che cosa sarebbe successo se i piccoli fans di Topolino sparsi nel mondo avessero saputo che i loro quaderni e giocattoli erano macchiati del sudore e delle lacrime di operai-bambini sfruttati?
La questione del lavoro minorile è una piaga sociale che preoccupa le massime cariche del paese impegnate ad ordinare approfondite indagini sul fenomeno, e ad infliggere pene severe a chi è “coinvolto e responsabile”. Ciò nondimeno sorge spontanea una domanda: potrà la Cina nel breve periodo costruire un’armoniosa società socialista senza debellare il lavoro minorile? Il socialismo è un graduale processo d’apprendimento. E’ una civilizzazione. In natura ci sono fame e paura. Le dichiarazioni del 1789 non sono descrittive, sono assiologiche: l’uomo non nasce libero ed uguale. Lo può diventare. Ma è possibile educare cittadini ai valori del socialismo, facendo leva su generazioni che ancora acerbe sperimentano sulla propria pelle lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo? La strada è lunga.

(28 novembre 2007)

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