Pezzi d'Africa - Pillola 2 - Biografilm Festival Bologna (www.biogafilmfestival.it)
Un'umanità quella africano con ancora tutto il peso delle atrocità del colonialismo addosso che cerca di fuggire da povertà, antichi sistemi culturali e guerre
Dopo la rinascita della comunità di Lusanga nella Repubblica Democratica del Congo grazie alle sculture d'argilla e di cioccolato del collettivo degli artisti lavoratori delle piantagioni vista in “White Cube” di Renzo Martens passiamo a “African Apocalypse” di Rob Lemkin (Regno Unito, 2020) in Italia grazie alla collaborazione con il centro Amilcar Cabral. Femi Nyalander coautore e protagonista è uno studente di Oxford e leggendo “Cuore di Tenebra” di Joseph Conrad pubblicato nel 1899 ambientato in Congo, è colpito dalle violenze perpetrate dal personaggio Kurtz, un tagliatore di teste e di violenze indicibili durante la conquista di quelle nuove terre. Gli antenati di Femi Nylander, il abitavano in Niger ma lui non conosce cosa abbia voluto dire la colonizzazione francese perché difficilmente te lo insegnano sui libri di scuola. Così andando alla ricerca di documenti originali scopre le immagini di bambini e adulti del Niger senza mani e braccia dopo le violenze subite dai colonialisti, di villaggi in fiamme, di mucchi di cadaveri e va alla ricerca del Mister Kurtz del Niger che individuerà nel capitano francese Paul Voulet capace di atrocità peggiori del personaggio di Conrad. Voulet aveva ricevuto l'incarico di guidare la Missione Africa-Ciad, una missione di civilizzazione, così era chiamata, dal ministro delle Colonie francese. La Missione Voulet-Chanoine, partita da Dakar in Senegal, nell'estate del 1898 aveva lo scopo di raggiungere il lago Ciad passando dal Niger, per unirsi ad altre due missioni francesi una partita dall'Algeria e l'altra dal Congo e completare l'Impero francese in Africa. Femi, una volta in Niger per la prima volta, visiterà tutti i villaggi lungo la strada tracciata dal sangue dei genocidi eseguiti da Paul Voulet e i suoi uomini che hanno saccheggiato, bruciato e brutalizzato ogni villaggio con la scusa che i nativi non gli fornivano cibo e accoglienza. Tagliavano le teste a donne, uomini e bambini mettendole sui pali per terrorizzare la popolazione. Sarà il tenente Louis Péteau a scrivere al ministro delle Colonie e a raccontare i crimini commessi nonostante la resa della popolazione indigena ai francesi. Il protagonista di “African Apocalypse” accompagnato da Amina e Assan parte dal villaggio di Dioundiou dove vengono accolti da tutta la popolazione che insieme e silenziosa li circonda, e ascolta i racconti dei vecchi del villaggio che hanno visto coi loro occhi, perché la memoria rimane anche dopo 100 anni. Degno di nota è il fatto che nessuno, prima di Feni, era mai andato a chiedere a queste popolazioni cosa era successo in quel periodo. “Gli europei bombardarono la città. Come fa la Francia a pensare che li perdoneremo. La Francia non risarcirà mai la perdita di vite umane. Il 50% della popolazione di ogni villaggio se non di più è stata uccisa. Nel villaggio di Birni-N' Konni furono massacrate 15mila persone.” Da queste parti ci sono gli uomini di Boko Haram che fanno stragi, ma non sono tanto diversi dal capitano Voulet e i suoi uomini, narra il protagonista. In un altro villaggio dicono: “Come possiamo perdonare i Francesi se ci creano dei problemi anche oggi. Nel 1978 hanno iniziato ad estrarre Uranio lo yellowcake. L'uranio ci ha ucciso per trent'anni e fino al 2014 lo abbiamo fornito alla Francia esentasse. Una lampadina su tre della Francia è alimentata da uranio del Niger”. I bambini e le bambine dei villaggi intervistati conoscono bene l'imperialismo europeo e cosa abbia significato e significhi tuttora per le loro comunità che non hanno dimenticato ed è normale che intervistati considerino gli europei dei barbari. Tante sono le storie che raccoglie Feni e che emergono dai racconti lungo la strada del Niger e che andrà a raccontare una volta tornato a Oxford ad una manifestazione Black Lives Matter dello scorso anno. “Il Colonialismo non è una cosa del passato ma del presente”.
“Le Dernier Refuge” di Ousmane Samassékou (Francia, Mali, Sudafrica, 2021) in Italia grazie alla collaborazione con We World e Refugé Welcome Bologna, fotografa nelle prime scene cadaveri di persone nel deserto del Mali e un gruppo di uomini che li seppellisce. In questo luogo nella cittadina di Gao, grazie alla Caritas, è nato un centro chiamato “la Maison du migrant”, che accoglie tutti i migranti che passano da lì per raggiungere l'Europa e quelli che ritornano dopo viaggi allucinanti, torture e soprusi subite nei territori ancora sotto il governo di Al Qaeda e nei paesi trampolini per l'Europa come l'Algeria. A condurlo c'è l'operatore della Caritas che dichiara: “Conosco il Sahara molto bene l'ho attraversato 4 volte. Non c'è pietà nel Sahara ci sono 8/9 posti di blocco e tutti ti chiedono i soldi e se non li hai, inviano le tue immagini sotto tortura ai tuoi parenti. Il Sahara è l'inferno.” Per quello oggi conduce questa struttura per far cambiare idea ai migranti che vogliono lasciare l'Africa e avvisare i loro parenti che sono in salute. Sotto i riflettori la storia di due ragazzine fuggite dalle loro famiglie in Burkina Faso con i loro sogni. Esther racconta: “Quando andavo a scuola desideravo tre cose: suonare, recitare o fare la pugile per esprimermi e tirare fuori tutta la rabbia che ho dentro” mentre Kadi sognava di fare la poliziotta, il medico per salvare vite o l'insegnante di francese. L'operatore in quella palazzina tutta azzura con tanti ragazzi e ragazze con la vita in sospeso tra l'Europa e l'Africa, incontra le due ragazzine alle quali chiede prima di tutto di dargli il numero di telefono dei parenti per informarli che stanno bene, ma soprattutto cerca di dissuaderle da intraprendere quel viaggio perché per le donne gli stupri sono la normalità e la prostituzione o vivere sulla strada sono ciò che le aspetta una volta in Algeria. In quel luogo invece possono frequentare dei corsi di formazione per trovare un lavoro. “L'istruzione è fondamentale per la vostra indipendenza mentre scegliere la via per l'Europa significa vivere in strada e prostituirsi. E lo sapete che succederà così. E' questo che volete?” ripete a loro più volte. Un gruppo di ragazzi studia inglese, altri reppano strofe come “nel Sahara sparano come ai polli”. Esther solo alla fine del colloquio guarderà l'operatore negli occhi. E' in un mare di lacrime e sembra essersi convinta. La sua vita è stata molto dura fino ad allora. Poi parteciperà ad un altro incontro e assisterà allo sfogo di un ragazzo iraniano che nulla lo convincerà a interrompere il viaggio: “Sono partito per cercare me stesso e nessuno potrà fermarmi.” Esther deciderà di partire. La sua testimonianza è molto toccante per la consapevolezza con cui parla di se stessa nonostante la giovane età: “Fin da bambina ho odiato la vita perché non sono stata amata da mia madre e da mio padre. Sono stata sempre sola ed esclusa dagli altri. Dall'età di 2 anni ho vissuto con un'amica di mia madre e mia mamma l'ho incontrata per la prima volta solo a 13 anni. Non sono riucita a chiederle il perché mi ha abbandonata. Chi sono per giudicarla? Poi è morta e dopo la sepoltura la sua famiglia mi ha detto di andarmene e mi ha lasciato sola come una statua anche quel giorno. Mi dispiace voglio partire. Da quando sono qui e mi sono liberata dei miei segreti, il fardello è come sparito e ho capito che devo amare la vita, quindi ora devo realizzare la mia vita. Incoraggiatemi per favore è solo quello che vi chiedo incoraggiatemi”.
Una notte, coi loro fagotti in spalla Kadi e Esther, si incamminano nel buio del Sahara verso Tombouctou (Timbuktu). Di Kadi si sa che è ritornata dalla famiglia in Burkina Faso mentre di Esther si perdono le tracce in Algeria.
“Motherlands” di Gabriel Babsi (Ungheria – Romania 2020) racconta 5 anni della vita di Hervè arrivato dalla Costa d'Avorio in Grecia senza documenti quando nel suo paese è iniziata la guerra. “I militari complottando con la Francia hanno formato delle milizie armate pagate arruolando i ragazzi più poveri e analfabeti. Stavo studiando ad Abidjan ma poi sono tornato in campagna dai miei genitori e mi sono unito alle forze di resistenza ma poi ho abbandonato la lotta e sono fuggito.” Il regista conosce Hervé nel 2012 ad Atene. Hervé una volta in Grecia dopo aver conosciuto le vie di passaggio tra le foreste che portano in Macedonia eppoi in Serbia decide di aiutare i neri africani che entrano in Grecia a fuggire perché il destino sarebbe finire in cella o essere rimpatriati. Hervé vive di stenti nella periferia di Salonicco sempre in pericolo tra la vita e la morte e soffre, soffre moltissimo per il destino dei suoi fratelli africani. Conosce molto bene la situazione politica del suo paese “Outtara il presidente dice che va tutto bene vuol tenere nascosta la guerra alla Ue e va in Turchia a chiedere il rimpatrio di tutti gli ivoriani.” Hervè si fa pagare dai migranti per il viaggio tra le foreste, ma li aiuta solo a scappare e a continuare a sperare di raggiungere le terre sognate ed evita loro di essere derubati da altre bande criminali. Hervè ha scelto di rimanere in Macedonia dove ha trovato un po' d'amore, una compagna che gli darà il suo primo figlio. Non hanno una casa non hanno lavoro entrambi. Possiamo considerare Hervé un trafficante di esseri umani? Possiamo giudicarlo? Sicuramente come gli altri migranti è un pezzo di umanità africana in fuga dalle guerre che devastano quel continente. La Costa d'Avorio è in guerra da più di venti anni quando, Alassane Outtara nel 1999 sostenne un golpe militare che rovesciò l'allora presidente. In più finanziò una ribellione militare durata fino al 2010 che ha ucciso migliaia di ivoriani. Nelle nuove elezioni fu eletto Laurent Gbagbo ma la comunità internazionale e la Francia, insediarono al suo posto appunto Alassane Outtara, amico di Sarkozy. Iniziò la lotta di Resistenza e accusarono Gbagbo della repressione che fu portato di fronte alla corte di giustizia per crimini di guerra. Seguì una guerra di ribellione in cui sono morte più di 3000 persone. Il 17 giugno 2021, dopo dieci anni, Laurent Gbagbo è ritornato in Costa d'Avorio in quanto assolto dai crimini contro l'umanità dalla Corte penale internazionale. In tutti questi anni Hervé è tornato in Costa d'Avorio solo per la morte del padre ora forse potrà fare ritorno nella sua patria senza essere perseguitato come dissidente politico e forse regolarizzare i suoi documenti.
Manuela Foschi (freelance)
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